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Le scene che abbiamo visto a Cogne e ad Avetrana, per citare solo due dei casi più famosi di cronaca nera degli ultimi anni, dovrebbero spingere, con un pizzico di cinismo, a non stupirsi più di tanto delle urla scagliate contro Veronica Panarello, accusata dell'omicidio del figlio Loris, al momento del suo arrivo nel carcere di piazza Lanza a Catania.
«Assassina, devi morire», le hanno gridato i detenuti dalle celle. Stesso trattamento a base di urla e insulti anche da parte della gente che si era raccolta davanti alla questura di Ragusa per godersi lo spettacolo e vedere da vicino la “mamma assassina”.
La presunzione d'innocenza è quasi una bestemmia, un lusso che non possiamo permetterci quando s'accende la sarabanda mediatica attorno - e dentro - al dolore e all'orrore di un delitto terribile e la “voglia di giustizia” diventa slogan buono per qualche striscione da appendere a favore di telecamera.
Nel decreto di fermo i pm di Ragusa hanno scritto che Veronica Panarello si è «resa responsabile dell'omicidio del proprio figliolo, con modalità di elevata efferatezza e sorprendente cinismo».
Poi sono riportate alcune frasi della donna, la quale, si legge, «sin da bambina soffriva di manie persecutorie, era una bambina aggressiva e violenta. Sino all'età di sette anni e stata seguita e curata da uno psicologo» ma poi «si è rifiutata».
Forse la chiave di volta di quanto accaduto sta nel passato difficile di questa giovane donna. Veronica si è sempre sentita rifiutata dalla madre, Carmela, che le ha ripetuto di essere il frutto di una gravidanza indesiderata e durante una lite le rivela che è nata da un rapporto occasionale con uomo che non è il padre che poi l'ha riconosciuta.
Veronica cerca a lungo quel padre naturale ma quando lo trova lui la rifiuta. Dopo l'ennesima relazione clandestina della madre, che ha avuto cinque figli da tre uomini diversi, a 15 anni tenta il suicidio stringendosi al collo una fascetta e provando ad impiccarsi. È il secondo tentativo di suicidio dopo quello di un anno prima con la candeggina.
A Grammichele, nel Catanese, dove era tornata dopo aver passato l'infanzia in Liguria per via del lavoro del padre, frequentava l'istituto artistico Albertini. Ed è in questo momento che si materializza Davide, l'uomo che la sposa e in questi giorni di tregenda l'ha protetta con un silenzio rotto solo da uno sfogo sibilato la notte del fermo: «Se è stata lei, mi deve dare spiegazioni».
Amore da “ragazzini”, forse che però culmina a 16 anni con una gravidanza indesiderata, dalla quale nasce Loris, e un matrimonio in qualche modo “obbligato”. Il marito è camionista, lavoro che lo costringe a lunghi giorni lontano da casa. Veronica cresce in fretta, a Santa Croce Camerina la chiamano la “forestiera”.
Arriva un altro figlio. Per lei si materializza una vita solitaria. Adesso sono in molti a dire che il suo rapporto con Loris non era proprio idilliaco, che spesso riversava con violenza su di lui le sue frustrazioni e paure.
Anche per questa vita di ombre, continuamente popolata da demoni capricciosi, Veronica Panarello non merita quelle grida infamanti.
Al marito ha detto: «Davide non mi abbandonare, fammi sapere quando saranno i funerali del mio bambino perché voglio partecipare». Un’estrema fragilità come quella di Veronica, pur nell’enormità di quello di cui è accusata, merita un po' di pietas. E di silenzio soprattutto.
«Assassina, devi morire», le hanno gridato i detenuti dalle celle. Stesso trattamento a base di urla e insulti anche da parte della gente che si era raccolta davanti alla questura di Ragusa per godersi lo spettacolo e vedere da vicino la “mamma assassina”.
La presunzione d'innocenza è quasi una bestemmia, un lusso che non possiamo permetterci quando s'accende la sarabanda mediatica attorno - e dentro - al dolore e all'orrore di un delitto terribile e la “voglia di giustizia” diventa slogan buono per qualche striscione da appendere a favore di telecamera.
Nel decreto di fermo i pm di Ragusa hanno scritto che Veronica Panarello si è «resa responsabile dell'omicidio del proprio figliolo, con modalità di elevata efferatezza e sorprendente cinismo».
Poi sono riportate alcune frasi della donna, la quale, si legge, «sin da bambina soffriva di manie persecutorie, era una bambina aggressiva e violenta. Sino all'età di sette anni e stata seguita e curata da uno psicologo» ma poi «si è rifiutata».
Forse la chiave di volta di quanto accaduto sta nel passato difficile di questa giovane donna. Veronica si è sempre sentita rifiutata dalla madre, Carmela, che le ha ripetuto di essere il frutto di una gravidanza indesiderata e durante una lite le rivela che è nata da un rapporto occasionale con uomo che non è il padre che poi l'ha riconosciuta.
Veronica cerca a lungo quel padre naturale ma quando lo trova lui la rifiuta. Dopo l'ennesima relazione clandestina della madre, che ha avuto cinque figli da tre uomini diversi, a 15 anni tenta il suicidio stringendosi al collo una fascetta e provando ad impiccarsi. È il secondo tentativo di suicidio dopo quello di un anno prima con la candeggina.
A Grammichele, nel Catanese, dove era tornata dopo aver passato l'infanzia in Liguria per via del lavoro del padre, frequentava l'istituto artistico Albertini. Ed è in questo momento che si materializza Davide, l'uomo che la sposa e in questi giorni di tregenda l'ha protetta con un silenzio rotto solo da uno sfogo sibilato la notte del fermo: «Se è stata lei, mi deve dare spiegazioni».
Amore da “ragazzini”, forse che però culmina a 16 anni con una gravidanza indesiderata, dalla quale nasce Loris, e un matrimonio in qualche modo “obbligato”. Il marito è camionista, lavoro che lo costringe a lunghi giorni lontano da casa. Veronica cresce in fretta, a Santa Croce Camerina la chiamano la “forestiera”.
Arriva un altro figlio. Per lei si materializza una vita solitaria. Adesso sono in molti a dire che il suo rapporto con Loris non era proprio idilliaco, che spesso riversava con violenza su di lui le sue frustrazioni e paure.
Anche per questa vita di ombre, continuamente popolata da demoni capricciosi, Veronica Panarello non merita quelle grida infamanti.
Al marito ha detto: «Davide non mi abbandonare, fammi sapere quando saranno i funerali del mio bambino perché voglio partecipare». Un’estrema fragilità come quella di Veronica, pur nell’enormità di quello di cui è accusata, merita un po' di pietas. E di silenzio soprattutto.



