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Macerie, volti, voci, immagini, pianti. Dolore al cubo, moltiplicato all’infinito a reti unificate, rilanciato dai social e dunque ulteriormente amplificato. Esserci, raccontare, canalizzare aiuti è l’essenza dell’informazione che sempre più moltiplica i canali, coinvolgendo anche quelli che nella tradizione s’occupano di intrattenimento: un po’ perché sembra stonato intrattenere sulle futilità mentre la gente muore sotto le case andate in briciole, un po’ complice l’estate che dà poche alternative in termini dì notizie e di spunti.
Il rischio però è che chi racconta si lasci prendere la mano, anche per il bisogno di emergere nell’ampiezza dell’offerta, e che chi guarda finisca per subire la saturazione fino all’anestesia per autodifesa, o l’assuefazione al dolore esposto, esibito, spettacolarizzato. Dov’è il limite oltre il quale il dovere di informare scade in indebita invadenza? Dov’è il limite oltre il quale il bisogno di sapere travalica nel voyeurismo.
Non lo sappiamo esattamente perché quel limite non è scolpito nella pietra per sempre, se non nei paletti della deontologia, il resto lo mette l’umana sensibilità di chi racconta e di chi guarda. Il limite è nel mettersi nei “panni di”: nel non smettere nel pieno del caos, della fretta, dell’adrenalina, dell’emotività, di sforzarsi di esercitare il filtro della ragione, nel non smettere di chiedersi: “Se da quella fessura sotto le macerie arrivassero il braccio scorticato e il filo di voce di nostro figlio o di nostra madre quel microfono, quella telecamera, li metteremmo ugualmente così vicini? Se ci trovassimo noi un giorno, ignari e in pericolo, con il respiro in affanno, feriti sotto i muri di casa nostra senza sapere se ne usciremo vivi sapremmo perdonare lo sfregio di quello sguardo pubblico puntato senza pudore sulla nostra dignità ferita?
Ognuno avrà magari una risposta o un metro diverso, ma l’esercizio della responsabilità di chi decide dove si pubblica e dove ci si ferma passa per quella domanda. Perché anche chi guarda non disimpari a porsela nell’abitudine allo spettacolo del dolore.
Il rischio però è che chi racconta si lasci prendere la mano, anche per il bisogno di emergere nell’ampiezza dell’offerta, e che chi guarda finisca per subire la saturazione fino all’anestesia per autodifesa, o l’assuefazione al dolore esposto, esibito, spettacolarizzato. Dov’è il limite oltre il quale il dovere di informare scade in indebita invadenza? Dov’è il limite oltre il quale il bisogno di sapere travalica nel voyeurismo.
Non lo sappiamo esattamente perché quel limite non è scolpito nella pietra per sempre, se non nei paletti della deontologia, il resto lo mette l’umana sensibilità di chi racconta e di chi guarda. Il limite è nel mettersi nei “panni di”: nel non smettere nel pieno del caos, della fretta, dell’adrenalina, dell’emotività, di sforzarsi di esercitare il filtro della ragione, nel non smettere di chiedersi: “Se da quella fessura sotto le macerie arrivassero il braccio scorticato e il filo di voce di nostro figlio o di nostra madre quel microfono, quella telecamera, li metteremmo ugualmente così vicini? Se ci trovassimo noi un giorno, ignari e in pericolo, con il respiro in affanno, feriti sotto i muri di casa nostra senza sapere se ne usciremo vivi sapremmo perdonare lo sfregio di quello sguardo pubblico puntato senza pudore sulla nostra dignità ferita?
Ognuno avrà magari una risposta o un metro diverso, ma l’esercizio della responsabilità di chi decide dove si pubblica e dove ci si ferma passa per quella domanda. Perché anche chi guarda non disimpari a porsela nell’abitudine allo spettacolo del dolore.



