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La notte tra il 16 e il 17 ottobre 2025, alle porte di Roma, il buio è stato squarciato da un’esplosione. In pochi istanti, le fiamme hanno avvolto le auto parcheggiate davanti a una villetta di Campo Ascolano, nel comune di Pomezia. Una di quelle auto apparteneva a Sigfrido Ranucci, giornalista e volto del programma d’inchiesta Report su Rai 3. L’altra era della figlia.
L’ordigno, collocato sotto la vettura principale, ha distrutto completamente l’auto e danneggiato la facciata dell’abitazione. Solo il caso ha evitato la tragedia: pochi minuti prima della deflagrazione, la figlia del giornalista era rientrata in casa. «Poteva morire», ha detto Ranucci con voce ferma ma segnata.
Sul posto sono intervenuti Carabinieri, Digos, Vigili del Fuoco e polizia scientifica. La Procura di Roma, in coordinamento con la Direzione Distrettuale Antimafia, ha aperto un fascicolo ipotizzando danneggiamento aggravato con metodo mafioso. Le prime analisi parlano di un ordigno artigianale ma potente, forse contenente oltre un chilo di esplosivo. Un’esplosione che non ha fatto vittime, ma ha colpito in pieno la libertà di stampa.
«Volevano mandarmi un messaggio»
«Non era solo un avvertimento: volevano far male», ha dichiarato Ranucci. Non è la prima volta che riceve minacce. Negli anni scorsi ha trovato proiettili davanti a casa, è stato seguito, diffamato, messo nel mirino da campagne di delegittimazione. Tutti episodi denunciati alle autorità.
Negli ultimi giorni, il giornalista aveva anticipato sui suoi canali social alcuni temi della nuova stagione di Report: inchieste su poteri economici, su intrecci fra politica, criminalità e affari. «Forse è un caso – ha aggiunto – ma la coincidenza fa riflettere».
Il ministro dell’Interno ha disposto un rafforzamento immediato delle misure di sicurezza. Da Palazzo Chigi alla Rai, dal sindacato dei giornalisti alla Federazione della stampa, il coro di solidarietà è stato unanime. Ma per molti, la solidarietà non basta: «Serve protezione concreta per chi indaga nel nome dei cittadini».


Un segnale inquietante
L’attacco è avvenuto proprio il 17 ottobre, lo stesso giorno in cui nel 2017 fu assassinata con un’autobomba la giornalista maltese Daphne Caruana Galizia. Un caso simbolico, quello della giornalista di Malta che indagava sui traffici della criminalità organizzata nell'isola, paradiso fiscale nel cuore del Mediterraneo, come se si fosse voluto ricordare che anche in Europa si può morire per un’inchiesta.
Il messaggio che l’attentato trasmette è chiaro: colpire un giornalista d’inchiesta non è solo un attacco personale, ma un colpo inferto alla democrazia. «Si vuole far capire che chi tocca certi poteri paga un prezzo» ha detto un collega di Ranucci alla stampa.
Il lavoro e la missione di Sigfrido Ranucci
Per capire la portata di quanto accaduto bisogna ricordare chi è Ranucci e quale idea di giornalismo ha incarnato in questi anni.
Romano, classe 1961, laureato in Lettere alla Sapienza, entra giovanissimo nella redazione del TG3. È l’epoca del giornalismo sul campo, quando la telecamera è ancora un occhio pesante ma libero. Ranucci viaggia, osserva, documenta. Dalla cronaca nera alle guerre nei Balcani, dalle discariche tossiche alle mafie del Nord, costruisce un archivio di verità scomode.
Nel 2005 firma il documentario “Fallujah, la strage nascosta”, in cui denuncia l’uso di fosforo bianco da parte delle truppe statunitensi in Iraq. È una pietra miliare del giornalismo investigativo: gli costa minacce, ma anche riconoscimenti internazionali.
Negli anni successivi scrive Il patto. Da Ciancimino a Dell’Utri, un libro che scava nei retroscena della presunta trattativa tra Stato e mafia. Poi l’approdo a Report, di cui diventa conduttore e anima nel 2017, dopo l’uscita di Milena Gabanelli.
Con Report, Ranucci porta avanti un modello di televisione pubblica che non si limita a raccontare, ma indaga, verifica, espone fatti che altri preferirebbero lasciare nel buio. Corruzione, evasione fiscale, intrecci politico-finanziari, appalti truccati, crimini ambientali, abusi di potere: i temi sono spesso gli stessi che, in altri Paesi, hanno fatto saltare redazioni intere. La sua voce è diventata negli anni una firma di garanzia per molti telespettatori, e un bersaglio per chi vorrebbe un’informazione più docile.
Le voci del sostegno: «Un colpo alla democrazia»
Dopo la notizia dell’attentato, la prima a intervenire è stata Libera, l’associazione fondata da don Luigi Ciotti, che ha parlato di «atto gravissimo che colpisce al cuore la libertà d’informazione e la democrazia stessa». In una nota, Libera ha ricordato che «ogni bomba contro un giornalista è una bomba contro il diritto dei cittadini a sapere, a capire, a formarsi un’opinione»
Parole di vicinanza sono arrivate anche dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi), che ha chiesto la convocazione urgente dell’Osservatorio sui giornalisti minacciati, e da Articolo 21, rete di giornalisti e giuristi per la libertà di espressione: «Non si può colpire chi racconta le verità scomode con l’esplosivo e poi archiviare tutto come un gesto isolato».
E sono molti i cronisti che in questi anni hanno ricevuto minacce di stampo mafioso dalla criminalità organizzata: da Paolo Borrometi a Federica Angeli, da Sandro Ruotolo a Lirio Abbate. Tutti accomunati da una certezza: il mestiere di informare, in Italia, è ancora un atto di coraggio. L’attentato a Sigfrido Ranucci non è solo un episodio di cronaca, ma un simbolo di quanto fragile sia oggi la libertà di informazione.
È un segnale che non va normalizzato, né interpretato come una “deviazione isolata”. È il sintomo di un clima in cui la verità dà fastidio, e chi la cerca paga pegno. Il rischio è che la paura diventi abitudine. Ma come ha scritto lo stesso Ranucci poche ore dopo l’esplosione, “se rinunciamo a raccontare per paura, allora chi ha messo quella bomba avrà vinto davvero”.
Il giornalismo, quello vero, continuerà a scavare.



