Il brano di Vangelo tratto da Giovanni ci conduce dentro il Cenacolo. L’annuncio della propria partenza fatto da Gesù nel contesto dell’ultima cena ha profondamente scosso i discepoli. Lo sconforto provato, però, può essere vinto dalla fiducia. Devono affidarsi al Padre continuando a credere al Figlio, trasformando la loro fede vacillante in qualcosa di compiuto. Gesù annuncia che lascerà questo mondo, ma la sua dipartita appare come un’ottima notizia, perché è il preludio al suo ritorno alla «fine dei tempi». La morte di Gesù, dunque, non chiude l’esperienza dell’essere suoi discepoli, anzi, apre lo spazio a un nuovo tratto di percorso in cui vivere un rapporto eterno e indistruttibile con la sua persona. Nel momento in cui Gesù si separa dai suoi, non indica una “via” da percorrere su cui continuare a seguirlo, Lui stesso “diventa la Via”.
La metafora della “via” allude al tema del senso dell’esistenza, rispetto al quale Giovanni afferma che solo nella persona di Cristo e nel rapporto con Lui si viene a capo del significato fondamentale della vita. Gesù è presenza di Dio e, proprio per questo, è anche l’unico capace di aprirne il senso e di introdurre nella «vita piena».
Il malinteso di Filippo («Mostraci il Padre») permette un chiarimento ulteriore di tutto ciò. Il tempo trascorso con i discepoli è stato per Gesù un tempo di manifestazione e rivelazione: nella sua carne, nelle sue parole, nella sua umanità hanno potuto vedere il Padre e toccare con mano il suo essere «via, verità e vita». Questo perché c’è identità tra le parole e le opere di Gesù e quelle del Padre. Il Figlio è l’Inviato dal Padre, non pronuncia parole proprie né compie azioni che non siano quelle di chi l’ha mandato.
Ma come, dove e quando si potrà vedere il Padre se, con la sua partenza, non sarà più data la possibilità di ascoltare le parole di Cristo e vedere le sue opere? Dopo la Pasqua sarà la testimonianza dei discepoli a dare continuità. Essi compiranno le sue opere e ne faranno anche di maggiori. L’espressione «opere più grandi di queste» non va però intesa nel senso di atti più maestosi, estesi, potenti o efficaci. Piuttosto, suggerisce che l’agire dei discepoli dovrà essere in stretta continuità con quello di Gesù. Il protagonista resterà lui, che proseguirà la sua azione attraverso i discepoli.
Il racconto di Atti ce ne offre un esempio. Paolo e Sila subiscono le conseguenze della loro azione apostolica finendo in carcere dopo essere stati percossi a bastonate. Trovatisi inaspettatamente nelle condizioni di poter fuggire, si mostrano più preoccupati della vita del carceriere che della propria libertà, fermandolo nelle sue intenzioni suicide. L’uomo, colpito dall’evento e dall’umanità dei prigionieri, si dimostra aperto al loro credo che non esitano a condividere con lui e con il resto della famiglia. La continuità tra l’azione di Paolo e Sila e lo stile di Gesù è evidente e l’immagine limpidamente evangelica del carceriere che cura le loro ferite e li accoglie come fossero familiari ne è la conferma più bella.