La tentazione di vivere come cristiani in modo spiritualistico è sempre presente. Ne ha parlato più volte anche papa Francesco, e soprattutto nel secondo capitolo dell’Esortazione apostolica Gaudete et exsultate (19 marzo 2018) si è soffermato su quello che ha definito un «nemico della santità», ovvero lo gnosticismo. Questa parola deriva dal greco “gnosis”, che significa “conoscenza”, dalla quale sarebbe venuta la salvezza, come ritenevano i campioni di questo movimento (tra i quali gli autori di alcuni vangeli apocrifi, dei quali il più noto è il Vangelo di Tommaso). Ci si salverebbe, insomma, grazie alla sapienza che si crede di avere, o alla conoscenza delle cose che si pensa di conoscere, o alle esperienze che si pensa siano determinanti.
Il Papa però spiega bene che, grazie a Dio, «lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Gli “gnostici” fanno confusione su questo punto e giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine. Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono “un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo”».
La pagina dal libro dei Proverbi, offertaci questa domenica, ci aiuta a combattere questa tentazione, perché lì è la sapienza stessa, ovvero il dono o la dote o la qualità più desiderata dai filosofi (e dagli gnostici), che imbandisce addirittura una tavola e prepara da mangiare! Niente di meno astratto, e quanto di più pratico possibile, paragonabile a quello che accade in famiglia quando una mamma o un papà cucinano per i propri figli.
Ecco perché il più alto «grado di carità» – per usare l’espressione di papa Francesco – Gesù lo ha esercitato verso di noi donandoci il suo corpo e il suo stesso sangue, cioè la sua stessa vita. La pagina del Vangelo odierno lo spiega bene. Siamo a Cafarnao, sul Lago di Galilea, e Gesù dopo aver sfamato tanti discepoli e gente che lo ascoltava sta tenendo un lungo discorso nell’antica sinagoga. Riprendendo il racconto di Israele, nutrito dal suo Dio nel deserto attraverso il pane «disceso dal cielo», cioè la manna, Gesù propone se stesso, e la sua parola, come quel vero cibo e quella vera bevanda che ci permettono di vivere. Lo farà, ci viene raccontato e precisato dall’apostolo Paolo nella stessa lettera di cui si legge oggi un estratto, proprio durante la sua ultima cena (1Corinzi 11,17-34), lasciandoci la più antica testimonianza sull’Eucaristia.
Nella prassi cristiana, allora, la «carne» ha un’enorme importanza, perché il Figlio di Dio l’ha presa su di sé – il “principio dell’incarnazione” – e l’ha donata fino in fondo, senza risparmiarsi. La sapienza starà nel cercare Dio in quella carne, come anche nella nostra vita o nella nostra storia, e non “fuori” da esse.