È una reazione di «rammarico» quella di monsignor Giuseppe Baturi, arcivescovo di Cagliari e segretario generale della Cei, davanti alla legge sul fine vita approvata dalla regione Sardegna, seconda in Italia dopo la Toscana.

«Sono tanti i problemi di questa terra sulla sanità, mi spiace un’accelerazione su un tema così importante. Rischia di portare il tema della vita e della morte dentro una dialettica politica esagerata e non adeguatamente motivata. Il punto fondamentale è che, piuttosto che aiutare il suicidio, l’ente pubblico deve attivarsi il più possibile per sostenere la dignità del vivere fino all'ultimo istante, provvedendo alle cure palliative, ad aiutare le famiglie, ad attivare quei piani necessari perché ogni momento della vita di una persona sia sostenibile».

In Sardegna solo il 5 per cento della popolazione accede alle cure palliative.
«In Sardegna non c'è un piano territoriale per le cure palliative. Il punto di partenza per l'accesso al suicidio dovrebbe essere un dolore insopportabile, ma il problema è che noi non possiamo fermarci a valutare l'insopportabilità del dolore, dobbiamo attivarci per alleviarlo. Da questo dipende il livello di civiltà della società. Il dolore diventa insopportabile non soltanto per questioni evidentemente biologiche, ma anche per una prospettiva spirituale e affettiva di mancanza di compagnia, di sostegno, di solitudine. Ecco perché, il cosiddetto dolore totale, quello che rende impossibile pensare al futuro con speranza, dovrebbe essere fronteggiato con una cura totale della
persona».


Cosa intende per cura totale della persona?
«Significa provvedere all'assistenza della persona, anche se non può guarire, per alleviarne la sua sofferenza e rendere più dignitosa la sua vicinanza alla morte. Consentire il più possibile le cure domiciliari perché è dentro a relazioni affettive “calde” che si può sopportare anche questo momento di dolore. Sostenere le famiglie perché molto spesso queste si trovano da sole di fronte a situazioni gravi. Ecco, la cura totale a mio parere significa provvedere a prendersi carico dell'intera persona che si avvicina alla morte, pensando che - anche quel momento - ha un valore, può avere un valore. Che quel momento interroga l'intera società perché ci si stringa accanto a lei e la si
aiuti».
Di fondo c'è l'idea che non si possa decidere noi della vita anche nelle situazioni più gravi?
«Affermare l’esistenza di un diritto alla morte a cui l'ente pubblico deve provvedere significa introdurre qualcosa di grave, eticamente inaccettabile, ma anche pericoloso. Anzitutto perché si dà un messaggio ai malati, soprattutto ai più gravi, di possibilità di scegliere la morte e porre fine alla vita. L'autodeterminazione non può spingersi fino a lì. È un potere che ha a che fare con la vita, che va custodita e sfugge a ogni ideologia. Fa rabbrividire pensare un domani che chi ha il potere possa decidere quali vite hanno valore, quali vanno vissute e quali no. Dobbiamo mobilitarci perché sia dignitoso il vivere, ogni frammento di vita. Togliere valore alla vita incrina i fondamenti della nostra società».

C'è una parte di mondo cattolico però che chiede di collaborare alla scrittura di una legge sul fine vita.
«Prendendo atto di queste iniziative che si moltiplicano, di quelle della giurisprudenza e della Corte Costituzionale e senza negare il diritto alla vita, vi sono iniziative a favore di una legge ma a livello nazionale. Le leggi regionali e spinte locali sono inadeguate davanti a temi troppo importanti per essere lasciati alle maggioranze effimere dei singoli territori. Abbiamo avuto modo di dire l’importanza di un riferimento nazionale purché si attesti sul principio che la vita va custodita, accompagnata e salvaguardata e per impedire mali maggiori. Questo sì può avere un valore se la finalità è di contenere iniziative che altrimenti sarebbero ancora più gravi».

Quindi lei non è contrario a una legge purché quella legge si muova in nome della dignità della vita?
«L’importante è evitare iniziative frammentarie e non rispettose, e prevedere l'estensione delle cure palliative e di tutte le altre misure utili a dare dignità al vivere anche in quel momento».
Qual è il ruolo della comunità cristiana?
«È centrale come quello della comunità sociale. Oltre ad affermare la non legittimità morale del dare la morte e il rammarico per certe iniziative legislative, dobbiamo ribadire la nostra volontà di stare accanto ai malati, con solidarietà, amicizia e compagnia nei loro confronti e nei confronti delle loro famiglie, non solo negli ospedali, negli hospice, ma anche nelle case delle nostre parrocchie. Quindi, come cristiani, nel momento in cui giudichiamo in un certo modo le leggi ed evidentemente affermiamo il diritto alla vita, al tempo stesso dobbiamo noi stessi tutelare la vita attraverso una compagnia intelligente e fedele».