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Una sorta di «album di famiglia», orme che l’agostiniano Robert Francis Prevost ha lasciato sui sentieri sui quali ha camminato, ricordi indelebili per tutti quelli che lo hanno conosciuto e amato. I 45 minuti del documentario León de Perú, da stasera 20 giugno lanciato dai media vaticani aiutano a capire meglio il Pontefice attuale partendo anche dal suo passato. Salvatore Cernuzio, che ha passato in Perù una decina di giorni per questo lavoro ci racconta che questo spaccato. A partire dal titolo scelto «che vuole essere anche un gioco di parole per dire non solo il nome scelto dal Papa, ma il coraggio da leone che Prevost ha dimostrato in questi oltre 20 anni di missione».
In cosa ha avuto coraggio?
«C'è un coraggio che si è manifestato proprio nei momenti anche più duri, come è stato quello delle inondazioni, ma quello della pandemia, in cui era amministratore apostolico di Callao, una periferia poverissima, un sobborgo di Lima dove la gente è rimasta strozzata dalla fame, dalla malattia, dalla impossibilità di curarsi, da un lavoro nero portato avanti per anni e che quindi, nel lockdown non dava alcuna protezione. Lui, è uno dei tanti aneddoti che ci hanno raccontato, mandava polli, maiali, medicine, acqua naturale. Lo faceva a distanza, senza poter visitare questo territorio perché erano tutti bloccati in casa. Lui però si è fatto presente. Abbiamo trovato storie di gente, in queste baracche, che ci ha raccontato non solo di essere sopravvissuta grazie a questa generosità, ma di aver mangiato anche meglio del solito. Ecco, è stato un uomo coraggioso pronto a intervenire senza attendere, che si buttava in mezzo alle difficoltà della popolazione per alleggerirle.
Come è strutturato il documentario?
«È diviso in tre blocchi che descrivono questa missione. Non segue un itinerario geografico, cioè non si parte da Chulucanas che è stata la sua prima tappa per poi andare a Trujillo, a Callao e a Chiclayo ma è tutto un mix di voci che raccontano non tanto la figura di Prevost, ma la sua missione di “padre” come ancora tutti lo chiamano. Spontaneamente dicono “padre Roberto”, poi subito si correggono. Emerge la sua figura di formatore degli Agostiniani, con le testimonianze di tanti suoi studenti e di tanti confratelli di cui lui si è preso cura sia a livello spirituale che umano. Una testimonianza, quella di padre Juan, sottolinea che lui era un uomo della vicinanza ma anche dell'esigenza. “Ti chiedeva come stai, come va la vocazione”, raccontava, “e poi voleva che studiavamo, che eravamo ordinati, fedeli alla messa, alla preghiera”. Poi c’è la dimensione del parroco che partecipa a tutte le feste, a tutti i pranzi. Una sua parrocchiana raccontava che era così ben voluto che un suo compleanno l'ha festeggiato 15 volte in 15 case diverse. E poi, appunto la missione a Chulucanas, quindi in questa, piccola città dove ha mosso i primi passi, ha conosciuto il territorio. Era molto innamorato di una statua del Cristo campesino dove si recava a pregare. E poi il Vescovo, quindi il suo ministero a Chiclayo come pastore, ma anche come amministratore apostolico di Callao. C’è il racconto delle grandi opere sociali portate avanti nei momenti di tragedia dalla pandemia alle inondazioni. E poi la vita ordinaria».
Un ritratto a tutto tondo?
«Si quello di un pastore amato, benvoluto, che prendeva la macchina la sera e andava dal gruppo dei giovani che celebravano una festa della Madonna, inauguravano la statua, stava lì, cenava, cantava. Abbiamo trovato veramente tanto materiale audiovisivo inedito. Una figura affascinante. E poi abbiamo raccontato anche l’attesa di questo popolo che lo considera peruviano a tutti gli effetti. Per loro non è statunitense, dicono “che onore avere il Papa del Perù”. Quando hanno visto il “padre Roberto” uscire dalla loggia delle benedizioni sono rimasti sorpresi, gli hanno mandato tanti messaggi spontanei ai quali lui ha risposto. E adesso il loro desiderio è che non si dimentichi di loro e, dicono “siamo sicuri che non lo farà”».Il trailer del documentario



