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Che cosa ci faceva Massimo Bossetti, condannato in via definitiva dopo tre gradi di giudizio per l’omicidio di Yara Gambirasio, appollaiato sull’ormai iconico sgabello di Belve, ospite della trasmissione che ci ha abituato a discutere dei battibecchi della conduttrice con Teo Mammucari o delle sgrammaticature di Carmen di Pietro?
Lo studio, certo, era solo virtuale, una scenografia posticcia con tanto di zampata felina, giustapposta sulla reale location dell’intervista, il carcere di Bollate (Milano), per non tradire la riconoscibilità del format e tenere vivo quel tocco “glamour” cui il programma non rinuncia nonostante il vertiginoso salto dalle quisquiglie vipparole a un orribile caso di omicidio.
La clamorosa riapertura della vicenda di Garlasco, con nuovi indagati e inedite piste che sembrano elidere i confini fra le verità (processuali) e le più suggestive fantasie, sembra aver riportato la cronaca nera al centro della scena: la fiammata d’interesse mediatico - un continuo rimpallo fra televisione e social - ha trasformato il “Garlasco show” in un reality seriale e transmediale. Non stupisce dunque che Francesca Fagnani, giunta forse a una fase di stanca del suo format Belve, abbia chiuso la stagione con lo spin-off a base di “crime”, un’intelligente e furba deviazione che ci porta dalle frivolezze di un Michele Morrone o di una Floriana Secondi, ai territori ben più oscuri e inquietanti delle “Belve di satana” (con l’intervista a Mario Maccione) o del delitto di Yara Gambirasio a Brembate di Sopra con quella, appunto, a Massimo Bossetti.
Da oltre vent’anni il “crime” è un fiume carsico che attraversa i media, con momenti di clamorosa esplosione di interesse e un lungo lavorio più sotterraneo, che ha creato un’ampia audience di “appassionati del genere”, come li definisce in esordio di puntata la Fagnani.
I casi più clamorosi sono entrati stabilmente nell’immaginario nazionale proprio grazie ai media, soprattutto alla Tv: Novi Ligure (2001), Cogne (2002), Erba (2006), Perugia (2007), Avetrana (2010), Brembate (2010) e, naturalmente, Garlasco (2007).
La mediatizzazione del crime è un fatto cui è inutile guardare con moralismo: l’interesse c’è ed è diffuso (Belve Crime è andato a segno raccogliendo oltre un milione e mezzo di spettatori medi e picchi di quasi due) e la nera non è solo un genere che si presta al racconto a partire dalla sua lunga tradizione letteraria, ma tocca anche corde profonde delle nostre vite, la curiosità per l’oscuro, la paura, il senso – talvolta piuttosto banale – da attribuire al male.
Erano questi i pensieri con cui ho iniziato a guardare la parte più attesa del programma: la lunga intervista a Massimo Bossetti, condannato in via definitiva all’ergastolo per l’omicidio di Yara Gambirasio.
Inutile accampare i consueti argomenti circa la trasformazione di un drammatico caso di omicidio di una povera tredicenne in uno spettacolo per il prime time. Siamo, in fondo, un po’ tutti parte di quell’audience di appassionati del crime che vuole scorgere in una mezza parola o in un minimo gesto la conferma delle nostre convinzioni innocentiste o colpevoliste (la puntata è infatti già scrutata in ogni dettaglio dai criminologi per caso attivissimi su TikTok e gli altri social).
Alla fine dell’oltre un’ora di dialogo tra la giornalista e Bossetti è rimasta però una domanda che va oltre ogni moralismo. È vero che Francesca Fagnani, sulla scia delle Storie Maledette di Franca Leosini, maestra del genere, ha sfoderato un’attitudine e una professionalità giornalistica che poco hanno concesso all’interlocutore. Se la serie di Netflix (Il caso Yara. Oltre ogni ragionevole dubbio) sposava esplicitamente l’innocentismo pro Bossetti, qui Fagnani ha messo bene in luce le molte contraddizioni di chi, secondo tre gradi di giudizio, è responsabile del fatto.
Ma resta la domanda di fondo, che lascia pure un po’ di amaro in bocca, alla fine: a chi giova, veramente, quest’intervista? L’intervistato, Bossetti, è consapevole di essere ormai un personaggio mediatico, e continuerà a ricevere lettere di sostegno anche in futuro. Lui, coi suoi avvocati, senza ormai troppo da perdere, hanno intrapreso una vera e propria offensiva mediatica che mette in dubbio ogni evidenza e ogni solida verità scientifica (il Dna ritrovato sul corpo di Yara, in primis). Noi spettatori restiamo però frastornati dalla sensazione che nemmeno tre gradi di giudizio, e un’indagine realizzata con grande rigore, siano sufficienti per la Tv.
L’intervista di Belve Crime – a differenza di quelle di Franca Leosini, che avevano il pregio della ricostruzione altamente drammatizzata di casi dati per chiusi e assodati – poco aggiunge alla nostra conoscenza. Offre solo un ennesimo palcoscenico a un condannato per omicidio che ha passato la soglia della mediaticità. Il palcoscenico luminoso dello spettacolo che pare oscurare, nuovamente, l’unico elemento che dovrebbe invece muoversi nella mente, nel cuore e nella memoria nell’ascoltatore: il senso di pietà per la vittima.



