«Alzati e cammina». Facile a dirsi. Eppure, nel Vangelo di Giovanni, è proprio con queste parole che Gesù richiama in vita Lazzaro, morto da quattro giorni e pianto dalle sorelle Marta e Maria. Un episodio biblico noto, che nel tempo è diventato metafora di riscatto e rinascita. Ma se Lazzaro non fosse mai voluto tornare in vita? Se in quel sepolcro si fosse sentito al sicuro? Da qui prende avvio Io sono verticale, il monologo scritto e interpretato da Francesca Astrei, giovane attrice romana diplomata all’Accademia Silvio D’Amico. Lazzaro diventa così espediente narrativo per raccontare la depressione: un personaggio astorico che, servendosi dell’immaginario biblico come orizzonte di comprensione condiviso, si trasforma in archetipo universale, capace di toccare corde intime e difficilmente nominabili. 
Andato in scena nella sua forma definitiva lo scorso 19 luglio al Festival Direction Under 30 di Gualtieri, Io sono verticale ha raccolto importanti riconoscimenti: non solo il premio della giuria popolare under 30, ma anche quello assegnato da YArts, gruppo di giovani europei ospitati dal Festival. E tutto questo, nonostante un monologo di quasi un’ora interamente in italiano, senza sottotitoli, capace comunque di superare ogni barriera linguistica.
Abbiamo parlato con Francesca Astrei per farci raccontare da dove nasce questo progetto e qual è l’urgenza che lo ha generato.

  

Da dove è partita per costruire lo spettacolo? Qual è stata l’urgenza iniziale?

«Sapevo fin dall’inizio di voler affrontare questo tema, quello che io chiamo “abitare un dolore”. Quella condizione in cui ci si sente intrappolati in uno stato di sofferenza talmente profondo che uscirne sembra ancora più faticoso del dolore stesso. All’inizio avevo le idee un po’ confuse: non sapevo bene se volessi parlare di qualcosa di preciso o piuttosto di una condizione più ampia. Mi interessava però esplorare proprio quella dimensione dell’abitare il dolore, che per me si declina nella crisi depressiva, vista non solo dal punto di vista di chi la vive, ma anche di chi le sta accanto. Rispetto all'urgenza, sicuramente è un tema molto caldo. Viviamo un momento storico in cui si stanno finalmente sdoganando argomenti che, fino a poco tempo fa, erano meno riconosciuti. Ma spesso se ne parla in modo confuso, un po’ goffo. Anche se, finalmente, si comincia a dare un nome alla depressione, c’è ancora tanta incertezza su cosa sia davvero. A volte la si confonde con la malinconia, altre con il peso della pressione sociale che viviamo ogni giorno. E questa insoddisfazione perenne, questo malessere diffuso, sono diventati quasi una bandiera generazionale. E spesso, in questa narrazione, la depressione viene raccontata come qualcosa da stigmatizzare o, al contrario, da dissacrare. Non pretendo assolutamente con il mio lavoro di risolvere e di fare chiarezza, ma di utilizzare piuttosto il potere incredibile del teatro per raccontare questa dimensione nel suo aspetto più emotivo, non nozionistico, e ripartire da questo».

 

Come ha strutturato il lavoro?

«Una volta chiarito il tema, è iniziata una lunga fase di ricerca e studio: è la parte che amo di più e che occupa più tempo nel processo creativo. Ho cominciato a collezionare immagini, suggestioni nate dalla lettura di saggi e testimonianze. Una in particolare mi ha colpita: quella di una persona che, pur essendo viva, si sente morta, al punto da restare a letto nella posizione di una salma. L’idea che il letto, da luogo di culla e rifugio, possa diventare una tomba. Queste immagini mi hanno portata all’immaginario della figura di Lazzaro, dal Vangelo di Giovanni. Questa condizione dell’essere richiamati a uscire dal sepolcro rispecchiava profondamente ciò che volevo raccontare: il momento in cui, pur vivendo una crisi depressiva, senti che da fuori ti richiamano alla vita, ma uscire è difficilissimo. E chi è fuori non può capire, non per cattiveria ovviamente: non si può comprendere, se non da un punto di vista interno alla vicenda, il motivo per cui la “persona Lazzaro” non riesce ad alzarsi. Come dice Andrew Solomon, autore de Il demone di mezzogiorno, la depressione non si può spiegare, perché è troppo intima, personale. Solo chi l’ha vissuta può riconoscersi attraverso il confronto con la propria esperienza. Quello che possiamo fare è trovare delle metafore che la rendano accessibile. E così ho usato Lazzaro non come personaggio biblico in senso stretto, ma come simbolo, come archetipo di questa condizione di vita-non vita.
Non è tanto una riscrittura del Vangelo quanto piuttosto, come diceva Salomon, la ricerca di una metafora per raccontare temi estremamente umani».

 

Il riferimento a Silvia Plath, nel titolo, è arrivato dopo?

«Avevo già incontrato i suoi testi, sono sempre stata appassionata di lei .Nel momento in cui ho deciso di parlare della depressione da più punti di vista, sono tornata a leggere i suoi diari - una lettura che consiglio sempre, perché è straordinaria. Nei diari emerge il suo essere una poeta del quotidiano. Bellissimi anche gli scambi epistolari con la madre, dove si percepisce perfettamente il conflitto tra il vissuto del dolore e il tentativo di proteggerlo o edulcorarlo nel rapporto con chi ci ama. Plath è stata sempre presente durante lo studio, come riferimento. Non ho mai voluto fare uno spettacolo su di lei, perché mi sembrava un riferimento troppo specifico, quasi escludente. Ma è stata comunque presentissima, tanto che il titolo è amorevolmente rubato a una sua poesia che si chiama proprio Io sono verticale. Il primo verso recita: “Ma vorrei essere orizzontale”. Nella descrizione della sua condizione, lei è molto carnale, fisica. Mantiene sempre un livello di poeticità altissima, ma restituisce anche la crudeltà di questa dimensione».

 

Nel suo spettacolo però la fisicità non è la chiave centrale…

«Esatto. L’impatto emotivo è così vivido e chiaro che le parole diventano quasi un di più, la comprensione razionale passa in secondo piano. In scena resto praticamente ferma per 55 minuti. Parlo soltanto. Delego tutto al potere della parola, ma il corpo c’è, è vivo, è presente».

 

Qual è stata la ricezione del pubblico finora e come se l’era immaginata?

«Non sapevo davvero cosa aspettarmi dal pubblico. Mi è venuto più facile pensare in negativo: “Speriamo che nessuno si senta offeso, che non passi l’idea che io voglia fare una parodia di un testo sacro, che qualcuno che l’ha vissuto non si senta rappresentato”.  L'intento iniziale era infatti mettere su palco vari punti di vista e far emergere l’idea che non esista una prospettiva giusta o sbagliata, che qualcuno sia più vittima di altri. Tutti i personaggi hanno le proprie ragioni. Ognuno ha il proprio punto di vista da attraversare. È un lavoro a cui tengo davvero moltissimo, quindi vedere questi primi riscontri mi incoraggia. Anche oltre il premio, il fatto di parlare con le persone dopo lo spettacolo, di sentirmi dire e raccontare certe cose, mi fa dire: ok, adesso facciamo in modo che questa cosa cresca, non lasciamoci bloccare dalle paranoie”. Questa è una parte inevitabile nel lavoro, soprattutto quando c’è una componente autoriale oltre che attoriale».