Cosa c’entra un grande maestro della fotografia come Robert Capa con Caravaggio? E Pier Paolo Pasolini? Il primo, nel celebre scatto del Miliziano morente catturato durante la Guerra civile spagnola, rivela un tempismo drammatico e un realismo che non sono tanto diversi da quelli con cui Michelangelo Merisi immortala sulla tela il bacio di Giuda o l’ultimo respiro esalato da Oloferne, furibondo e stupito mentre vede la giovane Giuditta mozzargli di netto la testa. Nel secondo, allievo del critico Roberto Longhi, convive l’eterna dicotomia tra genio e sregolatezza. Entrambi, Caravaggio e Pasolini, sono «un po’ dottor Jekill e Mister Hide», scrive Vittorio Sgarbi nel suo ultimo saggio,Il punto di vista del cavallo (Bompiani, pp. 180, € 12,00), nel quale traccia un originale ritratto del pittore lombardo.  

Due indizi fanno una prova. Tu scrivi che è stato il Novecento a capire Caravaggio? Perché?
«Le coincidenze sono varie. Nel 1913 la Calabria organizza le celebrazioni del pittore Mattia Preti. All’epoca il critico Roberto Longhi ha 23 anni ed è stimolato dalla figura di Preti. Attorno a quella celebrazione si recuperano altre figure del Seicento come Artemisia Gentileschi, Battistello Caracciolo e Caravaggio. Di questi tre, il Merisi prende il largo perché è di gran lunga il più importante. Negli anni successivi, negli anni Trenta e Quaranta, Longhi commissiona una serie di studi molto importanti su Caravaggio e i caravaggeschi. Il culmine si raggiunge con la grande mostra di Milano del 1951 dedicata al Merisi che è l’atto di nascita di un’interpretazione nuova dell’artista e che coincide con la grande condivisione popolare dei valori della Resistenza dopo la caduta del Fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale. Caravaggio è il simbolo del popolo che vince la sua battaglia rispetto all’imperialismo. Se Andrea Mantegna è il pittore imperialista, non a caso esaltato dal Fascismo, Caravaggio è il pittore comunista, il pittore della rivoluzione popolare, degli ultimi, dei pezzenti che assurgono a protagonisti. Ecco quindi che Longhi, diventando comunista dopo essere stato fascista, vede l’eroe di quegli anni in Caravaggio. Senza dimenticare, inoltre, che la più importante corrente cinematografica italiana di quel periodo è il Neorealismo. Non è un caso quindi che la riscoperta del Caravaggio coincida con l’estetica neorealista, intimamente legata al mondo dei poveri e degli emarginati. È un’interpretazione apparentemente capziosa ma che coincide perfettamente con le date in cui la figura dell’artista raggiunge la piena affermazione. E non bisogna dimenticare che allievo di Longhi in quegli anni a Bologna era Pier Paolo Pasolini che è un po’ l’omologo novecentesco di Caravaggio».  

In che senso?
«Pasolini ebbe una vita contrastata, sempre in chiaroscuro, un’anima cattolica molto tormentata, un profilo popolare e populista. Tutto questo lo rende profondamente affine al mondo realista e tragico del Caravaggio. Pasolini è il grande scrittore, regista e poeta morto drammaticamente, con la stessa doppia vita che caratterizzò il pittore seicentesco».

Il realismo di Caravaggio cosa aggiunge alla carnalità del Cristianesimo, al suo «genuino, autentico materialismo», come direbbe Chesterton?
«Il Cristianesimo c’è in Pasolini, in Testori, in Caravaggio. Il loro realismo non contrasta con lo spiritualismo cristiano ma lo rafforza e lo esalta. La religione cristiana ha un fondamento reale nel Cristo, figlio di Dio, che diventa uomo, l’immanenza è più importante della trascendenza. Un pittore fisico e non metafisico come Caravaggio non può che esaltare lo spirito cristiano. Prendiamo L’Adorazione dei pastori di Messina rappresentata da Caravaggio come nessuno avrebbe mai potuto: tanto si sente la povertà dei protagonisti, la capanna che prende pioggia, una povertà che è quasi mortificante, umiliante. Eppure, c’è qualcosa di sublime in questa povertà dipinta proprio perché il pittore evita ogni belluria, ogni abbellimento».

La scelta di personaggi umili come soggetti dei suoi dipinti era casuale, dovuta alle frequentazioni di una vita sempre sopra le righe, o voluta?

«Voluta. In lui non c’è nulla di casuale. Caravaggio è l’inventore della fotografia perché rappresenta la realtà così com’è e non come dovrebbe essere ed è anche il pittore di una spiritualità che nasce non dall’alto ma dal basso come dimostra la Conversione di san Paolo conservata in Santa Maria del Popolo a Roma. In questo dipinto sembra che lui abbia rappresentato una stalla con il cavallo che predomina in primo piano e invade lo spazio. L’uomo caduto, San Paolo, ha perso il controllo dell’animale ed è in balia di forze incontrollabili».

Il punto di vista del cavallo qual è quindi?
«Che non è più l’uomo al centro della storia, non c’è più l’eroe uomo. Paolo, investito dalla luce di Dio, è comunque il protagonista anche se disarcionato. Qui Caravaggio compie una rivoluzione copernicana ed è una rivoluzione doppia, sia fisica che psicologica. C’è il ribaltamento di Paolo dalla sua posizione di potere e il ribaltamento della visione: anziché vedere l’episodio dal punto di vista dell’uomo, lo si percepisce dal punto di vista del cavallo».