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Papa Leone davanti alla tomba di San Charbel Makhlouf nel Monastero di Saint Maroun ad Annaya, in Libano
Transenne e folla, nonostante la pioggia, per accogliere il Papa. Leone saluta, dalla macchina blindata che già lo aveva scortato nella sua prima giornata di visita a Beirut e durante lo spettacolo offerto dalla presidenza del Libano. Accanto a lui, ieri, anche il presidente Joseph Aoun, cristiano maronita, eletto dopo due anni di vacanza della carica. Comandante dell’esercito, in carica al momento dell’elezione, ha promesso di far finire l’occupazione israeliana e, al contempo, ha dichiarato di voler «affermare il diritto dello Stato al monopolio del porto d'armi», come a dire che i partiti, a cominciare da quello di Hezollah devono deporre gli arsenali.
E non dimenticano, i cristiani che seguono la visita del Papa, le difficoltà del proprio Paese. Il difficile dialogo con Hezbollah, gli attacchi di Israele al Sud, la convivenza delicata e necessaria tra tutte le fedi. Papa Leone incoraggia e chiede di continuare a essere estimoni di speranza. Lo fa al mattino, andando nel monastero di Annaya. Sulla tomba di San Charbel.
Il monaco cristiano libanese, morto nel 1898 e canonizzato da Paolo VI nel 1977, il Pontefice invoca quella possibilità di pace e dialogo interreligioso che il monaco praticò, nel silenzio e nell’austerità per tutta la vita. Da lui andavano credenti di ogni religione a farsi ascoltare e consigliare. Alla sua intercessione il Papa, parlando in francese, la lingua da tutti compresa in Libano, affida «le necessità della Chiesa, del Libano e del mondo». E se, «per la Chiesa chiediamo comunione, unità: a partire dalle famiglie, piccole chiese domestiche, e poi nelle comunità parrocchiali e diocesane, fino alla Chiesa universale», per «il mondo chiediamo pace. Specialmente la imploriamo per il Libano e per tutto il Levante». Offre una lampada, segno della luce, affidando «alla protezione di San Charbel il Libano e il suo popolo, perché cammini sempre nella luce di Cristo».


Dal santuario di Harissa, dove lo attendono in migliaia, si levano numerosi applausi mentre assistono, dal maxischermo posto dietro all’altare ai momenti della visita.
Ancora più intenso è il tripudio quando arriva qui, dove, soprattutto da quando l’Annunciazione è divenuta festa nazionale, si ritrovano cristiani e musulmani a pregare la Vergine. Nostra Signora del Libano, patrona del Paese, è venerata da tutti i cittadini. Le donne, di qualunque fede chiedono a Maria la grazia di avere un figlio. Da questo centro di unità e dialogo il Papa parla ai vescovi, ai sacerdoti, alle consacrate e ai consacrati. Parla al mondo.
Consegna la rosa d’oro alla Madonna e loda la cucina libanese, ricca di spezie, profumi e sapori che, nella diversità, compongono piatti deliziosi. Non è un dialogo a buon mercato o ingenuo, quello che chiede di proseguire. Richiama Giovanni Paolo II che, nella sua visita ad Harissa del 1984 chiese di «far trionfare la forza rigeneratrice del perdono e della misericordia».
Ascolta le testimonianze che dicono che quelle parole non sono state vane. Nel santuario simbolo di unità ascolta le parole di padre Youhanna che vive nel piccolo villaggio di Debbabiyé, nella regione di Akkar, al Nord del Libano. Una zona che vive costantemente «nel bisogno più estremo e sotto la minaccia dei bombardamenti» e dove pure «cristiani e musulmani, libanesi e profughi d’oltre confine, convivono pacificamente e si aiutano a vicenda». Il sacerdote, qui con la moglie e la piccola figlia Moura, «l’abbiamo chiamata così, con il nome di una martire egiziana», spiega a famiglia cristiana a margine dell’incontro, racconta un episodio simbolico. «Una moneta siriana trovata nella borsa dell’elemosina, segno che nella carità ciascuno di noi può dare qualcosa».


Il Papa in preghiera davanti alla tomba di San Charbel Makhlouf
(REUTERS)Leone, con le parole di Benedetto, chiama alla conversione e al perdono, alla misericordia verso il prossimo, anche quello che è nostro nemico. «Solo così», dice Leone, «non si rimane schiacciati dall’ingiustizia e dal sopruso, anche quando, come abbiamo sentito, si è traditi da persone e organizzazioni che speculano senza scrupoli sulla disperazione di chi non ha alternative. Solo così si può tornare a sperare per il domani, pur nella durezza di un presente difficile da affrontare».
Parla dei giovani e delle prospettive «concrete di rinascita e di crescita per il futuro» che bisogna mettere in campo. Pensa ai migranti, con le parole della testimonianza di Loren, migrante lei stessa. «La storia di James e Lela, che lei ha raccontato, ci tocca profondamente, e mostra l’orrore di ciò che la guerra produce nella vita di tante persone innocenti».
E loda suor Dima, che ha scelto, «di fronte all’esplodere della violenza, di non abbandonare il campo, ma di tenere aperta la scuola, facendone un luogo di accoglienza per i profughi e un polo educativo di straordinaria efficacia. In quelle stanze, infatti, oltre a dare assistenza e aiuto materiale, si impara e si insegna a condividere “pane, paura e speranza”, ad amare in mezzo all’odio, a servire anche nella stanchezza e a credere in un futuro diverso al di là di ogni aspettativa».








