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Caro direttore, i suicidi in carcere sono grida di dolore che chiedono a tutti un esame di coscienza. Penso che i nostri fratelli nelle carceri facciano da capro espiatorio in una società che deve mostrare cosa succede a coloro che non sono abbastanza istruiti per difendersi o non hanno le basi per inserirsi nella società.
ROMANO
Il fenomeno dei suicidi in carcere è una piaga silenziosa e dolorosa che deve scuotere profondamente le nostre coscienze. Sono grida di dolore che si alzano a Dio per le condizioni difficili in cui si trovano molti detenuti, disperati e privi di sostegno emotivo e spirituale. In una parola, abbandonati. Le mura della prigione, invece di essere luogo di redenzione, come vorrebbe la nostra Costituzione, rischiano di diventare il teatro di sofferenze insopportabili.
Secondo l’Oms, nel 2019 il tasso di suicidio in Italia era pari a 0,67 casi ogni 10 mila persone. In carcere era più di 13 volte superiore: 8,7 ogni 10 mila persone detenute. Come cristiani, siamo chiamati a non voltare lo sguardo di fronte a questa realtà. Ogni vita è sacra, e anche chi ha commesso errori gravi merita di essere riaccolto e accompagnato con misericordia. Il carcere non può e non deve essere un luogo di abbandono.
Per questo è necessario promuovere una cultura della prossimità in tutti i modi possibili, anche con la preghiera, mezzo di comunione che raggiunge ogni luogo. Come fu per Pietro in prigione a Gerusalemme (cfr. Atti 12,5). Perché in Cristo ogni persona abbia una seconda opportunità.



