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Sopravviverà il potere di Erdogan alla tragedia nella miniera di Soma, dove 301 lavoratori sono morti tra le fiamme nelle viscere della terra? La domanda può sembrare strana dopo il trionfo elettorale ottenuto alle politiche dal Partito per la Giustizia e lo Sviluppo che sostiene appunto il premier. Ma le elezioni presidenziali si avvicinano (sono previste per agosto) ed Erdogan dà segni crescenti di nervosismo. Gli ultimi: un pubblico litigio con il presidente dell'Associazione turca degli avvocati, lo schiaffone rifilato a uno dei giovani minatori che appunto a Soma lo contestavano, le foto impressionanti di uno dei suoi consiglieri che prende a calci un altro contestatore già bloccato dalla polizia.
Il premier turco ha dovuto affrontare, negli ultimi tempi, difficoltà che forse non aveva previsto: scandali, contestazioni clamorose, rivolte di piazza come quella di Gezi Park, divisioni politiche (il presidente Gul in diverse occasioni non ha celato il proprio disaccordo) fino a poco tempo fa inimmaginabili. Erdogan, però, aveva sempre saputo gestire i problemi con una certa abilità, pur sapendo che alcuni di essi subivano influenze esterne (si pensi al ruolo di Fetullah Gulen, suo ex alleato ora nemico, potente predicatore islamico che vive negli Usa sotto l'ala dei servizi segreti americani) causate dall'ambizione turca (di Erdogan, in vero) di contestare all'Arabia Saudita il ruolo di potenza regionale nel mondo arabo sunnita.
Ora, con i minatori, giustamente indignati per la tragedia di Soma e per le condizioni di lavoro, Erdogan sembra aver perso la testa. Vengono in mente gli ultimi tempi dell'Urss, quando a far pendere la bilancia dalla parte di Eltsin contro Gorbaciov furono proprio le proteste dei minatori. Il sostegno elettorale per Erdogan e il suo partito è sempre venuto dalle classi meno abbienti, lavoratori umili proprio come i minatori. Questi scontri e queste proteste fanno pensare che a scricchiolare non sia più il "contorno" del sistema di potere di Erdogan (gli studenti e gli intellettuali di Gezi Park, i circoli finanziari influenzati dall'estero, i militari pesantemente ridimensionati...) ma il suo patto sociale costituente, quello che ha retto negli ultimi dieci anni e ha consentito alla Turchia di fare grandi passi sulla via dello sviluppo.
Il premier turco ha dovuto affrontare, negli ultimi tempi, difficoltà che forse non aveva previsto: scandali, contestazioni clamorose, rivolte di piazza come quella di Gezi Park, divisioni politiche (il presidente Gul in diverse occasioni non ha celato il proprio disaccordo) fino a poco tempo fa inimmaginabili. Erdogan, però, aveva sempre saputo gestire i problemi con una certa abilità, pur sapendo che alcuni di essi subivano influenze esterne (si pensi al ruolo di Fetullah Gulen, suo ex alleato ora nemico, potente predicatore islamico che vive negli Usa sotto l'ala dei servizi segreti americani) causate dall'ambizione turca (di Erdogan, in vero) di contestare all'Arabia Saudita il ruolo di potenza regionale nel mondo arabo sunnita.
Ora, con i minatori, giustamente indignati per la tragedia di Soma e per le condizioni di lavoro, Erdogan sembra aver perso la testa. Vengono in mente gli ultimi tempi dell'Urss, quando a far pendere la bilancia dalla parte di Eltsin contro Gorbaciov furono proprio le proteste dei minatori. Il sostegno elettorale per Erdogan e il suo partito è sempre venuto dalle classi meno abbienti, lavoratori umili proprio come i minatori. Questi scontri e queste proteste fanno pensare che a scricchiolare non sia più il "contorno" del sistema di potere di Erdogan (gli studenti e gli intellettuali di Gezi Park, i circoli finanziari influenzati dall'estero, i militari pesantemente ridimensionati...) ma il suo patto sociale costituente, quello che ha retto negli ultimi dieci anni e ha consentito alla Turchia di fare grandi passi sulla via dello sviluppo.



