Il profeta Ezechiele, vissuto nel VI sec. a.C., aveva sperimentato una triste vicenda d’amore. Non per il tradimento della moglie, come era accaduto a un altro profeta, Osea, ma per la morte improvvisa e prematura di colei che egli teneramente chiamava «la delizia dei miei occhi» (24,15- 27). Attingiamo al libro imponente di questo testimone dell’esilio degli Ebrei a Babilonia per un’altra storia nuziale, questa volta del tutto fittizia. In essa la simbologia amorosa è applicata alla travagliata vicenda delle relazioni tra il Signore e il suo popolo. Noi ora fisseremo la nostra attenzione sulla parabola del cap. 16 del libro di Ezechiele (rielaborata anche nel cap. 23) per continuare a illustrare il nesso tra famiglia e misericordia.
Siamo davanti a una realtà che purtroppo si ripete anche ai nostri giorni: sul ciglio di una strada ecco una bambina abbandonata, con il cordone ombelicale ancora legato e sporca di sangue. Non era stata lavata e frizionata con sale, come si usava nell’antico Vicino Oriente per ragioni igieniche e di auspicio (il sale indica pace e benessere). Figlia illegittima di stranieri (padre amorreo e madre ittita), era stata esposta «come un oggetto ripugnante» su una strada. Del suo vagire si accorge, però, un ricco e potente viandante che la raccoglie e la alleva Žfino a trasformarla in una splendida ragazza «già in età d’amore, con il seno ‘florido» (16,7-8).
Quel signore nobile decide, allora, di sposarla: con il tipico gesto nuziale orientale stende il lembo del suo manto e la avvolge facendola sua moglie e principessa. La coccola profumandola con balsamo, le offre trine e vesti di seta ricamata, calzature di pelle di tasso, orecchini, anelli da naso, collane, bracciali e un diadema: «Eri diventata sempre più affascinante ed eri diventata una regina» (16,13). Ecco, però, la svolta inattesa e lacerante: «Tu, infatuata della tua bellezza, ti sei prostituita, concedendo i tuoi favori a ogni corteggiatore» (16,15). L’amore misericordioso del marito è, così, duramente respinto e umiliato.
È facile intuire il valore teologico che assume questo racconto, anche perché “prostituzione” è il vocabolo con cui nella Bibbia si defiŽnisce il peccato di idolatria. Il catalogo di perversioni che il profeta elenca e che sono commesse dalla donna, «spudorata sgualdrina» (16,30), rivelano in fiŽligrana le colpe di Israele, a partire dal vitello d’oro adorato come divinità nel deserto e dagli altri idoli: «Coi tuoi stupendi gioielli d’oro e d’argento che ti avevo donato ti sei fatta fiŽgure umane e le hai usate per peccare» (16,17). La lunga sequenza delle infedeltà a quell’amore ricevuto da chi aveva tratto la donna dalla strada diventa, infiŽne, esplicitamente morale: «Superbia, ingordigia, rifiutare la mano al povero e all’indigente » (16,49).
Il sipario, però, non scende sulla scena immersa nella luce torva del tradimento. La misericordia del Signore-sposo non si arrende, anzi, desidera spezzare la catena delle infedeltà della donna amata. Lo sposo chiama la sposa colpevole a una nuova “eterna” alleanza nuziale. Essa non nasce da un passo di pentimento della trovatella-principessa, bensì ancora una volta dall’amore misericordioso, gratuito e invincibile del Signore-re-sposo. Di fronte a questa generosità così alta la donna «ricorda, si vergogna e, confusa, non sa più aprir bocca. Ma io ti ho perdonato quello che hai fatto. Parola del Signore Dio» (16,63).