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Il 7 dicembre, festa di sant’Ambrogio a Milano e giorno della “prima” del Teatro alla Scala, un detenuto di San Vittore ha “pensato bene” di farla finita impiccandosi. È stato il 61° di una triste serie. Uno dei tanti gridi d’allarme che dice lo stato delle nostre carceri, ormai “fuori controllo” come titolava un recente articolo, tra sovraffollamento, disordini, violenze, prevaricazioni e un degrado generalizzato. E un record di consumo di farmaci antipsicotici. Nonostante l’appello del ministro Nordio, proprio in quei giorni, a «favorire il più possibile le occasioni di lavoro in carcere», sono solo il 35% i detenuti che lavorano; di questi, un misero 5% è occupato in un vero lavoro esterno, a fronte di un 87% impegnato in attività interne al carcere, poco spendibili una volta finito di scontare la pena. Se si considera che il 75% di chi è stato in carcere ci ritorna, e che la pena detentiva produce nelle persone perlopiù rancore e dimenticanza del motivo per cui si è in carcere, appare chiara la necessità di percorsi di riabilitazione e reinserimento diversi, che vadano oltre il carattere solo punitivo della pena.
È questa la realtà che fa da sfondo al servizio dedicato al progetto A mano libera per creare lavoro e possibilità di recupero per i detenuti del carcere di zona. Un progetto che «crede nell’impossibile»: la possibilità di “umanizzare” la pena. Ricordava papa Francesco all’udienza del 9 novembre 2016: «È troppo facile lavarsi le mani affermando che il detenuto ha sbagliato. Un cristiano è chiamato piuttosto a farsene carico, perché chi ha sbagliato comprenda il male compiuto e ritorni in sé stesso». A proposito: aiuterebbe una seria riflessione sulla giustizia biblica, come ha fatto padre Bovati in un intervento al Sinodo lo scorso ottobre. Giustizia che non solo punisce ma aiuta il colpevole, e che deve «trovare concretezza nella prassi giuridica e nei provvedimenti sociali... per aiutarlo nel suo personale ritorno al bene».
(Fotografia in testata di Maria Pansini)



