Per chiedere un migliore utilizzo dei fondi comunitari e maggiore coordinamento delle politiche dei vari Stati membri la European Parliament Alliance for Children ha organizzato con l'Unicef e varie associazioni un incontro, nell'emiciclo, tra il presidente dell'Europarlamento Schulz e la piccola Betrice Vio, conosciuta come Bebe.
Lo sport è una modalità di sostegno e recupero importantissima. È chiaro a tutti ma Philippe Cori, direttore dell’Unicef di Bruxelles, sottolinea che una persona disabile su due in Europa non ha mai partecipato ad attività ricreative o a uno sport. Peraltro, rimanendo in tema di tempo libero, un terzo di tutte le persone disabili non ha mai fatto un viaggio all'estero o anche partecipato a gite di un giorno, a causa dell’inaccessibilità di strutture e servizi. Anche questa sarebbe inclusione sociale.
La Angelilli avverte: tutto ciò è inaccettabile ma poi spiega che per parlare di inclusione sociale prima di tutto bisogna parlare di scolarizzazione. Attualmente, secondo Bernard Dan, professore alla European Academy of Childhood Disability, nella fascia di età compresa tra i 16 e i 19 anni, il tasso di descolarizzazione di persone diversamente abili è pari al 37%, rispetto al 17% della media di chi non ha problematiche.
La Angelilli non parla mai di disabilità ma di persone diversamente abili e lo spiega: «Noi in Italia abbiamo fatto un passo avanti culturale importantissimo che si riflette proprio in questa espressione che ci aiuta a guardare e valorizzare tutte le abilità che ogni persona può avere a dispetto di altri limiti, piuttosto che fermarci proprio ai limiti».
La Angelilli spiega che non è una conquista solo verbale, visto che in Italia si tende ad assorbire negli istituti scolastici tutti i bambini, anche quelli bisognosi di una qualche forma di sostegno. Non è così dappertutto. In Belgio, per esempio, vige la separazione: i minori diversamente abili hanno istituti per loro. Camille Latimier, dell’Associazione Inclusion Europe, dedicata in particolare alle disabilità intellettive, si chiede come si possano gettare in questo modo le fondamenta dell'inclusione.
Ci sono differenze significative tra i Paesi membri dell'Ue su molti aspetti, a partire dalle risorse messe a disposizione o dalle strutture architettoniche nelle città. Ma vanno ricordati gli importantissimi punti fermi fissati finora proprio a livello comunitario per abbattere barriere ambientali e comportamentali. La teoria è scritta nera su bianco anche se i singoli Stati membri devono poi assorbire e mettere in pratica quanto stabilito a livello comunitario. Innanzitutto con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, diventa vincolante, per i 27 paesi Ue, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea che nell’articolo 26 stabilisce che «l’Unione riconosce e rispetta il diritto delle persone con disabilità di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità». L’articolo 21 sancisce inoltre che «è vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata sulla disabilità». Il Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, TFUE, prevede che l’Unione debba «combattere la discriminazione fondata sulla disabilità nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni» (articolo 10) e le conferisce il potere di legiferare in materia (articolo 19). Bruxelles, inoltre, ha reso vincolante e ha inglobato nel suo ordinamento giuridico la Convenzione dell’Onu sui diritti delle persone con disabilità, che però è stata ratificata attualmente da meno di 20 Paesi membri. Ma il punto centrale è che per passare dalle normative alla realtà quotidiana servono i soldi. Il papà di Bebe, promessa della scherma italiana alle prossime Paralimpiadi, dall’emiciclo del Parlamento Europeo ha lanciato il suo appello brevissimo: «Non lasciate sole le famiglie delle persone diversamente abili».


