Era strano, ma anche significativo, sentire «vado al parco, vado in pizzeria…» alternarsi alle grida dei ragazzi palestinesi e ai colpi dei gas lacrimogeni dei soldati israeliani. Perché a Betlemme, a poche centinaia di metri dal Muro (o Barriera di separazione) dove si svolgevano gli scontri, proseguivano le lezioni dell’unica scuola di lingua italiana della Palestina: quella creata e gestita dalla Fondazione Giovanni Paolo II, nota per le azioni di sviluppo che anima in tutta la Terra Santa, Israele, Libano e Siria compresi.
Il progetto della scuola si inserisce nel quadro di riferimento del PMSP (Palestian Municipalities Support Programme), un programma di cooperazione istituzionale finanziato dal ministero degli Affari Esteri tramite il Consolato Generale d’ Italia a Gerusalemme e cogestito dalle Associazioni degli Enti Locali italiani ( ANCI- UPI-Regioni-OICS ). Il programma ha come obiettivo il miglioramento dell’organizzazione e lo sviluppo dei servizi degli Enti locali palestinesi attraverso la realizzazione di progetti in partnership con gli Enti locali italiani, ed è diretto dall'architetto Antonio La Rocca.
«Abbiamo varato la scuola nel 2011», dice Samer Baboun, coordinatore della sede di Betlemme, «in base a una constatazione: anche prima, grazie a una serie di borse di studio, c’erano ragazzi che frequentavano l’università in Italia. Quasi tutti, però, tornavano indietro, perché fragili rispetto alle difficoltà di una laurea in un altro Paese. Dovevamo “attrezzarli” meglio, da qui l’idea della scuola».
Il primo gruppo, nel 2011 appunto, fu di 13 studenti. «Il patto con loro era ed è chiaro: disponiamo di 6/7 borse l’anno e solo i più meritevoli possono accedervi, perché in Italia hanno gli stessi obblighi e carichi di lavoro di uno studente italiano. Però adesso non si arrende più nessuno, il che è importante per il nostro obiettivo: far acquisire a questi ragazzi serie competenze professionali perché poi tornino ad applicarle qui. Non tutti, comunque, frequentano con quello scopo: tanti vogliono imparare la lingua per lavorare nel settore del turismo, fondamentale per la Palestina».
Nel 2015 la scuola, grazie anche all'interessamento e all'attivismo di padre Ibrahim Faltas, vicepresidente della Fondazione giovanni Paolo II, ha fatto boom: decine di studenti, un trentina di loro pronta a battersi sui banchi per conquistare una delle borse assegnate grazie all’Adisu (Agenzia per il diritto allo studio universitario) dell’Umbria e di altre Regioni. C’è chi viene da Gerusalemme e tra autobus e posti di blocco impiega due ore prima di fare i 7,3 chilometri fino a Betlemme ed essere puntuale in classe. Chi da Ramallah, “capitale” della Palestina, e affitta con altri una stanza per seguire i corsi. «In generale, i palestinesi sono portati per le lingue, quasi tutti i miei studenti sanno almeno un po’ l’inglese o il francese», dice Gennaro Falcone. «Semmai hanno qualche problema con la pronuncia, perché l’italiano ha suoni che l’arabo non ha».
Gennaro era l’insegnante dei primi corsi del 2011 ed è tornato qui altre due volte, con l’intervallo di un’esperienza di lavoro in Grecia. Quindi conosce bene questi ragazzi. «Certo, il contesto si fa sentire. In passato ho avuto studenti che avevano perso parenti negli scontri con gli israeliani, era inevitabile parlarne. Le nostre lezioni, però, sono di lingua ma anche di cultura, e io cerco sempre di far passare questo messaggio: la conoscenza è l’arma più efficace per conquistare la libertà sia nella vita privata sia nel sociale. E la tenacia con cui studiano e affrontano i test trimestrali dimostra che lo credono anche loro».
Per accompagnare e incentivare gli studenti, Gennaro ha messo a punto un sito (www.litalianoperte.com) in cui possono interagire con l’insegnante, esercitarsi, approfondire questo o quell’argomento. Un altro modo, silenzioso ma assai concreto, di aiutare chi di bisogni ne ha tanti.