Gli occhi, splendidi, verde mare, catturano ogni segnale che passi nel loro raggio. Le mani ricoperte di gomma, governate tramite elettrodi con i muscoli delle braccia, non hanno tregua, seguono il flusso del discorso che viaggia alla velocità della luce. Bebe Vio coglie l’attimo per rispondere alle domande seduta su un gradino, tra una foto ricordo e un selfie, a margine della cerimonia in cui ha ricevuto dal Coni il Collare d’oro al merito sportivo. Tutto attorno a Bebe, Beatrice solo all’anagrafe, dà l’idea di una vitalità esplosiva, che afferra ogni istante perché nulla vada sprecato. Sarà che ha riacciuffato la vita con i denti, nel 2008, quando a 11 anni è sfuggita a una forma di meningite a fronte della quale quattro su cento ce la fanno. Sarà che dopo 104 giorni di ospedale ha reagito coniugando tutti i verbi al futuro.
Merito anche di una mamma e di un papà, che, certo facendo violenza alle proprie preoccupazioni, davanti a una bambina amputata a tutti e quattro gli arti sotto le articolazioni, non le hanno messo davanti un rosario di «non puoi». L’hanno aiutata a guardare il mondo concentrandosi su quello che restava, anziché partire, come si sarebbe tentati, dalle assenze: hanno assecondato le richieste di autonomia, anche le meno scontate. Sì allo sport, sì agli scout, sì alle trasferte anche quando dovevano passare per un percorso tortuoso, per superare ostacoli che andavano oltre quelli ordinari della scherma paralimpica (Bebe è l’unica schermitrice al mondo a tirare senza i quattro arti e senza la mano armata).
Senza il coraggio di tutti questi sì non solo non ci sarebbe Bebe campionessa paralimpica, ma non ci sarebbe neppure la ragazza che ha strappato un selfie a Barack Obama, l’esile donna bionica, rossetto fiamma e tacco 12 su protesi costruite ad hoc, che rivoluziona vivendo l’idea preconcetta della disabilità.
Lo fa rovesciandoti copernicanamente la prospettiva sotto il naso, senza che tu te ne accorga. Lo fa innescando il sentimento del contrario: lascia in vista le cicatrici sul viso, per il resto truccato alla perfezione, i suoi abiti eleganti sono sempre smanicati, sicché a nessuno possa venire il dubbio che le sue mani non siano come sono. Il risultato è che quando vedi Bebe Vio non vedi la disabilità, vedi Bebe: bella, vera, intera, con la sfrontatezza leggera dei suoi vent’anni scarsi, che pure hanno già vissuto, nelle esperienze estreme, il succo concentratissimo di molte vite.
Com’è Bebe Vio lontano dai riflettori?
«Così, dentro e fuori casa: sono la stessa persona con o senza le luci addosso ed è una cosa che mi piace di me. Non vorrei che suonasse come un atto di vanità, però approvo in me il fatto di riuscire a non cambiare il mio modo di essere, a non lasciarmi trasformare dalla visibilità, dalle persone o dal luogo in cui mi trovo».
Nel 2016 hai vinto le Paralimpiadi, incontrato il Papa e strappato un selfie a Barack Obama. Che cosa rimane?
«Tutti gli incontri sono stati molto emozionanti, ma sono una sportiva e non c’è niente di più importante che vincere un’Olimpiade o una Paralimpiade. Anche se ovviamente mi rendo conto di aver avuto delle occasioni irripetibili, di cui sono grata, so che alla fine quello che davvero mi resterà del 2016 sono le medaglie (oro nel fioretto individuale e bronzo a squadre con Loredana Trigilia e Andreea Mogos, ndr) e la grande avventura olimpica».
La tua vita è diventata molto esposta, ha mille impegni. Come vivi questo turbine?
«Vero, faccio un sacco di cose. Ma mamma mi ricorda spesso che non sto vivendo la vita normale di una diciannovenne e che non devo perderla di vista: ci provo perché è importante anche per me. Cerco, tra un impegno e l’altro, di salvaguardare la quotidianità, di uscire con i miei amici, di fare le cose ordinarie. Il 2017, come anno post olimpico, mi riporterà alla normalità. Ne ho bisogno: non solo perché devo concentrarmi e riprendere ad allenarmi, ma anche perché mi aspetta un passaggio importante: vado a vivere da sola, comincio a lavorare».
Il lavoro per cui hai studiato?
«Sì, ora vinco nella scherma ma nella vita sono una grafica e lavorerò con l’agenzia Fabrica di Benetton, dove mi occuperò di campagne sociali. Siamo un gruppo internazionale, andrò ad abitare con colleghe e colleghi stranieri».
Hai vissuto esperienze estreme, nel bene e nel male. Come sono i piatti della bilancia?
«Forse tutto questo successo è figlio anche della sfortuna: non credo nel destino, penso semplicemente che nella vita le cose possono accadere e quando ti succede qualcosa di brutto penso che stia anche a te scegliere se arrenderti o darti da fare per ritrovare un senso. Se ti impegni a non ripiegarti solo su te stesso, diventano importanti le persone che hai accanto, la tua famiglia, tutto il bene che puoi dare loro».
Credi in Dio?
«Una volta ci credevo di più. Credo nei valori della famiglia, in molti valori della cristianità. Ho avuto la fortuna di frequentare una scuola salesiana trovandomi benissimo. Il punto in cui sono l’ho trovato grazie a un dialogo con un sacerdote, andando a confessarmi a Natale, a scuola. Mi sono confrontata con la mia solita franchezza: “Don, come la mettiamo? Io non so più in che cosa credere. Non so più se ha senso, sono in crisi”. “Dimmi che cosa sono per te le cose belle della vita”. “Per me adesso sono la mia famiglia e lo sport”. “Dio è una cosa bella, cerca di vedere Dio nelle cose belle, giorno per giorno”. Ecco, ci provo».
Hai due fratelli Nicolò, più grande, e Maria Sole, più piccola: come vivono una sorella diventata improvvisamente famosissima?
«Non è facile, ma dipende anche da me far diventare tutto normale, credo che aiuti il fatto che mi vedano sempre uguale a casa o in Tv. Con i miei fratelli sono la Bebe di sempre: siamo una famiglia bella, normale, tranquilla, ci godiamo i momenti che possiamo condividere, anche se adesso è diventato un po’ più complicato: magari per trovarsi a pranzo tutti all’ora giusta bisogna darsi un appuntamento. Perché lo studio, il lavoro, lo sport e ora i miei impegni un po’ fuori dalla consuetudine, diventano difficili da conciliare quando si cresce. Ma ci teniamo tanto a stare tra di noi, con un po’ di acrobazie il tempo e il modo li troviamo sempre».
Hai ortopedici “artisti”, che cosa vorresti chiedere loro un po’ fuori dell’ordinario?
«Sono ottimista ma molto realista, non mi fermo davanti a un “non si può”, ma cerco di chiedere cose cui lavorandoci un po’ si può arrivare. Io oggi sento di avere tutto quello che mi serve, poi se un giorno sentirò un’esigenza so sempre che potrò bussare alla loro porta. Al momento non mi sentirei di chiedere per me: ci sono tanti ragazzi della nostra associazione (Art4sport fondata con i genitori per lo sport dei ragazzi disabili, ndr) che hanno più bisogno di me, in questo momento chiederei per loro».
E se invece potessi, tra passato e futuro, scendere a patti con Chi comanda in cielo?
«Sto bene così, io ho avuto un brutta malattia, ho sofferto ma adesso sono qui, ho le mie opportunità, magari un giorno posso avere male alla gamba ma sono a posto. Ci sono tanti ragazzi che combattono malattie che non si possono curare e generano tanta sofferenza senza speranza. Se lassù Qualcuno potesse fare qualcosa direi di darsi da fare per tutti quelli che non possono scegliere».
Bebe Vio in tre aggettivi.
«Oddio: rompiscatole di sicuro, ottimista e gran lavoratrice».
La popolarità ti porta molti complimenti, ma anche critiche cattivelle, come le vivi?
«Fanno parte del gioco, io non credo che esista una cosa che può andare bene a tutti: a me piace la nutella, ad altri non piacerà e così succede alle persone e ai loro comportamenti. Una cosa diventa normale quando viene anche criticata, abbiamo la fortuna di vivere in un Paese democratico dove ognuno è libero di esprimersi. Se a qualcuno posso non piacere è giusto che lo dica e che io prenda le critiche in maniera costruttiva. Alcune magari non si prestano tanto a costruire, ma rispetto il pensiero altrui. Ascolto, prendo quello che posso prendere, anche se non sono una persona che si fa spostare tanto: se arriva una malignità gratuita non me ne lascio troppo condizionare».
A vederti si direbbe che tu abbia un buon rapporto con la tua immagine. È così?
«Potrei dire che ognuno deve accettarsi per quello che è, ma accettarsi non è la parola giusta perché fa pensare a un accontentarsi, a un farsi andare bene quello che non piace. Io mi piaccio, mi piace quel che sono. Non nascondo le mie protesi perché fanno parte di me, vado fiera delle mie protesi e delle mie cicatrici, anche se capisco che non tutti le vivono così. Per me sono un aggettivo positivo. Non è vanità, è che quando ti piaci sei in pace con te stesso e stai bene. Sarei contenta se questo mio modo di essere aiutasse chi non si piace ad apprezzarsi».
Ti pesa essere un simbolo?
«È una responsabilità, ma non mi pesa, perché la vedo come una cosa che può aiutare anche me. In adolescenza sei tentato di fare qualche cavolata, ma se sai che ti guardano, prima di farne una vera di cui ti pentiresti conti fino a dieci. Io credo molto nei giovani, le persone grandi ormai sono formate, non le cambi, ma sapere che una bambina mi guarda come a un esempio, mi serve a migliorarmi».
Di che cosa hai paura?
«Di tante cose, credo che la paura sia una cosa che fa bene alle persone, è normale avere paura, il problema è affrontarla, per decidere in che cosa trasformarla».
La conquista più grande.
«Godersi quello che si fa, riuscire a trasformare le sfortune in risorse (parole originali più colorite, ndr): la sda più grande è far capire che sembra impossibile ma si può».
Il limite più grande.
«So che è una cosa già sentita ma il limite spesso è nella testa delle persone: la disabilità è vista come una cosa brutta, spaventosa, ma accade anche perché è ancora troppo sconosciuta, nel momento in cui vivi e davvero fai pace con te stesso come sei, i limiti si superano».
Descrivi la tua famiglia.
«Persone toste, forti, grintose. Se io e i miei fratelli siamo come siamo, è di sicuro grazie ai miei genitori: una gran bella squadra».
La canzone del momento.
«Sono Jovanotti-dipendente. Tutte canzoni sue. Ogni momento importante della mia vita ha una canzone sua come colonna sonora».
Un libro per l’isola deserta.
«Io ci sono di Lucia Annibali. Mi piacciono le storie vere, non mi piace il fantasy: se leggo una cosa è perché deve insegnarmi qualcosa, il libro di Lucia mi è servito tanto».
Non hai paura che da un 2016 così mirabile si possa solo scendere?
«Ogni volta che dico che sta per arrivare un momento tranquillo poi succede qualcosa di nuovo. Magari me lo dico perché arrivi ancora qualche sorpresa. Intanto io mi darò da fare per far capitare altre cose belle».
Foto Augusto Bizzi | Comitato Paralimpico