Junior Cally (senza maschera) sul red carpet di Sanremo (foto Ansa)
Qualche anno fa una mamma, durante un colloquio, mi raccontò scandalizzata dei toni usati in chat dai compagni di classe di sua figlia, mia alunna. «Non può immaginare, prof, quante parolacce, anche bestemmie, quale livello di volgarità, mi vergogno anche a ripeterle». Si riferiva all’intero gruppo, nessuno escluso: c’era chi scriveva, ma anche chi stava a sentire, senza mai intervenire. Era entrata di nascosto nel gruppo WhatsApp, aveva letto e non poteva credere ai suoi occhi. In effetti ero abbastanza stupita anch’io: si trattava di una classe vivace, ma niente di più.
Da quel giorno ho chiuso per qualche ora i libri e ho aperto gli occhi: ho cominciato a osservare i rapporti tra compagni, a entrare in aula con i giornali, a leggere, a dibattere, a usare in modo diverso le mie ore settimanali di italiano. Quel colloquio era stato per me uno strappo nel cielo.
Lo stesso squarcio che mi pare sia stato provocato in molti di noi dalla chiamata a Sanremo del cantante Junior Cally: diventato famoso con canzoni rap virali su YouTube, il ragazzo ventinovenne, sebbene presenti un testo che, a sentire la critica, sarebbe una foto dell’Italia di oggi, con rime taglienti e un messaggio antipopulista, in passato ha scritto canzoni con contenuti violenti e contro le donne.
Strega, del 2017, ha parole che lasciano sconvolti. Fanno entrare con una doccia fredda nel mondo che è passato tra i banchi senza che noi lo vedessimo, che è arrivato ai nostri figli senza che noi ce ne fossimo mai accorti. Perché è questo il punto vero. Junior Cally è stato disco di platino nel 2017, ma prima della sua chiamata a Sanremo era per la maggior parte di noi adulti un illustre sconosciuto. Per i ragazzi no.
Si è discusso della sua esclusione dal Festival, sono state raccolte le firme per cacciarlo via, le consigliere nazionali di parità hanno scritto una lettera per chiedere alla Commissione di vigilanza della Camera e al presidente della Rai di prendere provvedimenti.
Ma dove eravamo noi genitori mentre i ragazzi lo ascoltavano, magari sui nostri stessi telefonini pronti troppo spesso a fare da baby-sitter d’emergenza? Dove noi insegnanti? Senz’altro ci è sfuggito qualcosa. Da qui bisogna ripartire. Dal filtro adulto che è mancato. Dall’ascolto, dal tempo da spendere per capire, per trovare il modo di discutere, di interpretare e spiegare la violenza che esiste dentro e fuori di noi. Forse bisognerebbe imparare a utilizzare anche il rap a noi così lontano, a cominciare proprio dal Festival, per parlare dei disagi sociali, della violenza di genere. Cercando di ricostruire, da educatori, attraverso le cronache e le storie, quella punizione per il misfatto che in queste moderne canzoni tragiche manca del tutto. Perché occorre trovare il modo di attribuire alla giovanile rappresentazione del male una chiave di lettura.
(tratto da un articolo pubblicato in origine su FC5 del 2020)