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Il Tribunale supremo elettorale (Tse) del Brasile ha deciso: Luiz Inácio Lula da Silva non potrà essere candidato alla presidenza alle elezioni del 7 ottobre. Secondo i magistrati del Tse vale la legge della “scheda pulita”, una norma voluta dallo stesso Lula nel 2010 e che impedisce ai cittadini condannati in secondo grado di presentarsi alle elezioni e ricoprire incarichi pubblici. Finisce così il sogno dell’ex presidente (in carica dal 2003 al 2010), che si trova rinchiuso in carcere a Curitiba dallo scorso 7 aprile per una condanna per corruzione e riciclaggio nell’ambito della maxi-inchiesta per tangenti “Lavo jato”, la “Mani pulite” brasiliana.
L’accusa per lui è di aver accettato un appartamento di lusso a Guarujà, sul litorale di San Paolo, in cambio di favori all’impresa costruttrice nei suoi affari con la compagnia petrolifera Petrobras. L’ex presidente ha sempre respinto il reato e ha accusato la destra di voler in questo modo impedire il suo ritorno al potere. Di fatto, la condanna di Lula - 12 anni e un mese di detenzione - è molto controverse molti contestano l’eccessiva durezza della pena rispetto al reato.
Il Tse si è espresso a sfavore della candidatura per sei voti contro uno. L’unico magistrato favorevole, Edson Fachin, ha votato sì alla candidatura basandosi sulla richiesta presentata dal Comitato per i diritti umani dell'Onu alle autorità brasiliane affinché garantissero a Lula l’esercizio dei suoi diritti civili, incluso quello di presentarsi alle elezioni presidenziali finché non saranno esauriti tutti i ricorsi giudiziari. L’ex presidente infatti è stato condannato in primo dal giudice Sergio Moro, simbolo delle inchieste anti-corruzione, in secondo grado dal tribunale regionale federale di Porto Alegre e ha ancora a disposizione due gradi di giudizio al quali appellarsi prima della sentenza definitiva.
Secondo Fachin le richieste dell’ONU sono vincolanti per le autorità brasiliane e superiori alla legge della "scheda pulita”. Ma secondo gli altri magistrati, a partire da Luis Roberto Barroso, il Comitato per i diritti umani dell’ONU è un organo amministrativo che non ha competenza giurisdizionale. Pertanto le sue raccomandazioni non hanno valore vincolante dal punto di vista giudiziario. La presidenza brasiliana, inoltre, non ha mai promulgato i relativi accordi internazionali, che avrebbero reso vincolanti per il Brasile le richieste dell’organismo.
Ora, il Partito dei lavoratori ha dieci giorni di tempo per designare il suo candidato, che sarà sicuramente Fernando Haddad, l’ex sindaco di San Paolo, di origini libanesi, candidato alla vicepresidenza nel caso Lula fosse atto ammesso. Per il Brasile la decisione del Tse è un colpo durissimo: secondo gli ultimi sondaggi, infatti, Lula - che concluse il suo secondo mandato presidenziale con una popolarità altissima - continua a essere il favorito alle presidenziali, con quasi il 40% dei consensi. Al secondo posto si colloca il candidato di ultra-destra Jair Bolsonaro, al terzo l’ecologista Marina Silva.
Nei giorni scorsi l’ex presidente ha ricevuto varie visite in carcere, dall’ex capo di Stato dell’Uruguay Pepe Mujica a Martin Schulz, ex leader socialdemocratico tedesco e presidente del Parlamento europeo dal 2012 al 2017, che ha espresso la sua solidarietà al Partito dei lavoratori e a Lula. «Non sono qui per giudicare ciò che fa la giustizia brasiliana», ha dichiarato, «però nessun potere al mondo può evitare che io creda a un uomo che conosco da molti anni e nel quale ho fiducia».