Nei cinquanta minuti intercorsi tra il sisma e l’arrivo dello tsunami a Fukushima non tutto è andato come avrebbe dovuto, c’è un black out informativo su tre quarti d’ora e tuttora i dati relativi all’accaduto non sono diffusi che tra le righe dei bollettini tecnici, sparsi qua e là in allegati di non facile lettura per i non addetti ai lavori.
A sostenerlo è Giorgio Ferrari Ruffino, esperto nella progettazione e fabbricazione del combustibile nucleare che ha lavorato per anni all’Enel, che insieme ad Angelo Baracca è autore e curatore di SCRAM, la fine del nucleare, libro uscito a fine maggio per Jaca Book.
- Da chi avete ottenuto le informazioni per arrivare a certe conclusioni?
"I dati che abbiamo analizzato vengono principalmente da tre fonti giapponesi: la Tepco, che è la compagnia che gestiva la centrale; la Nisa, Nuclear and Industrial Safety Agency; e la Jaif, Japan Atomic Industrial Forum. Abbiamo inoltre confrontato le nostre conclusioni con quelle della Union of Concerned Scientists, organizzazione non governativa indipendente americana che riunisce diversi scienziati impegnati nel monitoraggio dell’ambiente. Loro hanno analizzato gli stessi dati e le conclusioni sono analoghe".
- Come avete fatto ad avere accesso ai dati in questione?
"Le fonti che ho citato pubblicano bollettini giornalieri, faticosi da leggere, e spesso le rilevazioni scientifiche, cioè i dati sismologici che riguardano il terremoto e quelli relativi alla contaminazione radioattiva delle acque e del suolo, si trovano distribuiti in diversi allegati. Li abbiamo confrontati tra loro, per vedere le discrepanze nell’evoluzione temporale e alla fine ci siamo consultati con gli scienziati americani".
- E quali sono le vostre conclusioni, a cominciare dal sisma?
"Innanzitutto il nono grado della scala Richter si è registrato all’epicentro e non dove è situata la centrale, a quel livello di costa il terremoto è stato del settimo grado. Per l'esattezza, la Nisa lo colloca tra il quarto e il settimo. Inoltre i dati rilevati alla centrale da una cinquantina di sismografi rivelano che il carico massimo assegnato dalle specifiche di progetto è stato superato solo un paio di volte.
- Quindi nell’arco di tempo tra il terremoto e lo tsunami la centrale non ha subito danni?
"Non è esatto: la sottostazione elettrica è andata fuori servizio e
lo può vedere anche dalle foto pubblicate sul sito della Tepco, si
vedono danni ingenti, interruttori caduti, sezionatori aperti e inoltre
alcune delle linee sono state abbattute. Il vero problema però non è
quello delle linee elettriche fuori uso quanto quello della
sottostazione, che non era più in grado di garantire l’alimentazione ai
sistemi ausiliari. Questa si trovava più in alto della stessa centrale e
in ogni caso non è stata proprio raggiunta dall’onda di maremoto, ma
essendo parte integrante della centrale doveva rispondere alle stesse
specifiche antisismiche. Eppure è rimasta gravemente danneggiata, tanto
da andare fuori uso, proprio per il sisma, e non per lo tsunami, anche
se il terremoto sostanzialmente non ha superato le specifiche di
progetto".
- Cosa è davvero avvenuto in quei cinquanta minuti, prima dell’arrivo del mare?
"Una volta staccata la corrente elettrica necessaria per gli
impianti ausiliari, tra cui quelli di raffreddamento, e visto che non
era possibile ripristinarla dalle linee esterne per i danni alla
sottostazione, si è ricorsi alle pompe diesel. Queste a quanto risulta
dai dati diffusi hanno funzionato correttamente per tutti e tre i
reattori, ma alcuni dei parametri di funzionamento hanno comunque
mostrato un comportamento anomalo, che non può essere attribuito alle
procedure di emergenza. In pratica i dati che si rilevano, in
particolare al reattore uno, mostrano che c’è qualcosa che non va".
- Si spieghi meglio, cosa intende per comportamento anomalo?
"Nel reattore uno il livello dell’acqua si abbassa eccessivamente, e
pure la pressione subisce degli sbalzi fuori norma. Questo non è ancora
un evento catastrofico, stando ai parametri presi in esame, però a una
distanza di dieci, quindici minuti dal terremoto è un brutto segnale,
nonostante i diesel siano entrati in funzione. Inoltre le pompe sono
macchinari delicati: basta escano di pochi millimetri fuori asse per
restare completamente distrutte una volta messe in moto. Non si può
escludere che il sisma abbia danneggiato anche alcune delle pompe, visto
il comportamento anomalo del reattore".
- E quando arriva l’onda cosa succede?
"Quando arriva l’onda trova i diesel che erano collocati al di
sotto del livello del suolo, e li sommerge completamente. Le pompe
infatti si trovavano in vani sotterranei. A questo punto in tre ore e
mezza, quattro il nocciolo del reattore numero uno resta completamente
scoperto per parecchie ore. Questo emerge in maniera inequivocabile dai
dati".
- Cosa significa?
"Che a quel punto il nocciolo del reattore uno è completamente
fuso, ma non solo, pare si sia fessurato anche il vessel, cioè
l’involucro d’acciaio spesso 16-17 centimetri e che serve a contenere il
nucleo. Nei loro rapporti parlano di buchi, ma quello che conta è che
anche un acciaio così spesso può non aver resistito a sbalzi di
pressione e temperatura così repentini, dei veri e propri shock
termici".
- Con quali conseguenze?
"Che nel momento in cui hanno cominciato a immettere acqua
all’interno del reattore per raffreddarlo, compresa quella di mare, un
buon trenta per cento fuoriusciva. L’acqua scava, trova strade per
defluire, insomma è impossibile dire dove vada. Parliamo di acqua
venuta in contatto con il nocciolo completamente fuso. Si esattamente, è
un’acqua enormemente radioattiva, che trasporta particelle di metalli
radioattivi, quindi con un potenziale inquinante altissimo, ed è lecito
supporre che sia finita in mare. Tutti i dati sulla contaminazione del
mare a mio parere andrebbero rivisti.
- Qual è la differenza tra questo incidente e quello di Chernobyl?
"A Chernobyl c’è stata un’emissione complessiva di radiazioni molto
maggiore, l’esplosione ha scoperchiato completamente il nucleo,
lasciandolo esposto all’atmosfera e spargendo elementi altamente
radioattivi nell’aria. Per Fukushima si è parlato di un’emissione pari
al 10-15% di quella. Al contrario il potenziale radiologico, la quantità
di combustibile che si è danneggiato in Giappone, è enormemente
superiore a Chernobyl, tre nuclei più quattro piscine. Parliamo di 70
mila tonnellate di acqua altamente contaminata che sono confinate nei
tre impianti e che è impossibile tenere ferme. Molta è già finita, sta
finendo o continuerà a finire in mare o nel suolo".
Nel primo reattore nucleare, la pila di Fermi del 1942, la barra di controllo che serviva a spegnere il reattore era sospesa a una fune che doveva essere recisa a mano da un uomo con un’ascia, il Safety Control Rod Axe Man, ovvero SCRAM. “Il nucleare è una tecnologia che presenta costi enormi, completamente fuori mercato, tanto che negli Stati Uniti per spingere gli investimenti dell’industria nucleare il Governo ha dovuto mettere la sua garanzia sui prestiti di chi realizza le centrali”, dice Angelo Baracca, fisico, professore all’Università di Firenze che, insieme a Giorgio Ferrari Ruffino, esperto di combustibile nucleare che ha lavorato per anni all’Enel, è autore e curatore di SCRAM (l’acronimo è proprio quello, Jaca Book, pg.412, euro 34), al cui interno si trovano anche i contributi di Ernesto Burgio e Mycle Schneider.
Secondo le tesi del libro siamo di fronte a una tecnologia costosa, non remunerativa e niente affatto sicura come si pensa, perché estremamente complessa e quindi difficile da gestire vista l’imprevedibilità delle situazioni che si possono presentare. Ci sono poi notevoli problemi di inquinamento: non solo non è vero che è del tutto privo di emissioni di CO2, ma presenta alti costi economici e ambientali, c’è la questione della dismissione delle centrali alla fine del periodo di esercizio e quella dei prodotti di scarto del ciclo di funzionamento, le cosiddette "scorie". I rischi per la salute sono alti, e non solo per l’esposizione a dosi massicce di radiazioni, ma come rivelano recenti e ancora poco note ipotesi scentifiche, anche per l’esposizione prolungata a piccole dosi di agenti radioattivi.
E da ultimo, contrariamente a quanto si pensa, il nostro Paese non ne ha affatto bisogno in termini energetici.
“La questione della sicurezza”, continua Baracca, “è ampiamente sottovalutata. Per esempio: a
Fukushima, si sente dire, c’è stato un incidente. Ma non è vero, ce ne
sono stati tre, e per fortuna gli altri tre reattori erano spenti.
Per non parlare poi delle piscine con le barre di combustibile
irraggiato, anch’esse oggetto di incidente. Si tratta di barre che sono
fuori da un contenitore primario ma continuano ad emettere calore. Una
volta arrestata la reazione nucleare, infatti, e anche quando sono
estratte dal reattore e messe a riposo nelle piscine, hanno accumulato
una grande quantità di isotopi radioattivi che continuano a decadere e a
produrre energia. Se le barre non vengono opportunamente separate e
raffreddate, la temperatura può salire fino ad arrivare alla fusione”.
Per quanto riguarda i costi nel caso giapponese si parla di danni che superano i cento miliardi di dollari,
cifre come queste fanno capire come mai esistono convenzioni
internazionali che limitano a poche centinaia di milioni di dollari le
responsabilità per danni derivanti da incidenti nucleari, nessuna
assicurazione coprirebbe un’impianto per premi così grandi da superare
il bilancio di un piccolo Stato. Ecco perché i costi degli incidenti,
tipo quello avvenuto a Fukushima, ricadono necessariamente sulle spalle
dei contribuenti.
“Un’altra fonte incontrollata della spesa nucleare”, aggiunge
Baracca, “è rappresentata dai costi di smantellamento, per i quali non
c’è nessuna vera esperienza precedente sulla quale basarsi. Nel mondo ci
sono circa 140 reattori spenti e 440 in funzione, 20 dei quali sono in
fase di arresto. Tuttavia le esperienze di smantellamento completo
riguardano solo piccole centrali da 40-50 Megawatt. Il ché vuol dire che
non esiste alcuna esperienza di smantellamento delle moderne centrali che vanno dai 400 MW fino a superare i mille, e che sono buona parte di quelle in piena attività, in Francia come negli Stati Uniti. Dei relativi costi non si sa nulla”.
Secondo gli scienziati italiani infine è vero che il processo di
fissione non produce CO2, ma tutto quello che sta a monte, e cioè
l’estrazione dell’uranio e il suo arricchimento, richiedono energia e
quindi produzione di anidride carbonica. Secondo uno studio dell’MIT,
citato dal professor Baracca, per un reale abbattimento delle emissioni
a livello mondiale servirebbero migliaia di reattori nucleari, “ma
in mezzo secolo”, conclude, “se ne sono costruiti solo 600. Dal punto di
vista industriale il nucleare si è rivelato un colossale fallimento”.