Sorridono in posa sotto le cuffiette bianche. Sul tavolo zucchero a velo, polvere di cacao e vassoi di cioccolatini. Oggi quella foto appartiene a un’altra vita. Sembra lei non ci sia affatto, ma è un attimo: ecco lo sguardo che brilla dal display del cellulare. Sono gli stessi occhi, rossi di pianto, che incontriamo sulla collina di Fanar, alta sul mare di Beirut. «I cioccolatini non riuscivo a venderli più e allora sono tornata al villaggio dei miei, a Silfaya, dove almeno c’è l’orto», sussurra Miladeh, 52 anni. I capelli raccolti in una coda, offre biscotti e limonata rosa al cardamomo: «Lì crescono bene fagioli, cetrioli e prezzemolo, e poi guarda che pomodori». Torna quel sorriso mentre dal telefono mostra altre fotografie. Le ha scattate al villaggio, a 60 chilometri da Beirut, dove è tornata due anni fa, quando ha capito che con la crisi economica e la lira libanese ridotta a carta straccia non ce l’avrebbe fatta. Eppure ai corsi di cioccolateria ci aveva creduto. «Dopo la morte di mio marito, con due figli che studiavano ancora qui a Beirut, ho dovuto reinventarmi», racconta. «Sono sempre stata casalinga, ma so lavorare all’uncinetto e soprattutto fare dolci. L’idea è nata un giorno con Claudette, che mi ha raccontato del suo amico Pierre, costretto a chiudere il negozio. Ci siamo dette che il laboratorio di pasticceria lo avremmo aperto proprio in quel locale e che io sarei stata l’insegnante».
Miladeh, 52 anni, con due amiche ex pasticciere come lei. (Foto nell'articolo di MARCO PALOMBI / Focsiv)
Ecco allora la prima lezione: con Miladeh ci sono Fadia, Florence, Haly, Hiam, Gisele e Nawale. Oggi le incontriamo una per una, ospiti in casa loro, scendendo da Fanar giù fino al porto, il simbolo del disastro libanese: il 4 agosto 2020 l’esplosione di 2.700 tonnellate di nitrato d’ammonio immagazzinate senza il rispetto delle norme di sicurezza ha fatto tremare la città provocando oltre 200 morti e 6 mila feriti. Con Claudette si parla anche di questo, dell’inchiesta e di una politica bloccata, ancora ostaggio di quote e affiliazioni comunitarie a trent’anni dalla fine della guerra civile. Oggi ascoltiamo però soprattutto le piccole storie, quelle di un ceto medio soffocato dalla crisi, che ha bisogno di aiuto ma ha anche tanto orgoglio. Normale allora che in questi racconti ai nomi non seguano i cognomi. Claudette, 59 anni, un tempo era un’assicuratrice benestante. «Le cose sono cambiate nel 2019, quando in piazza cantavano “rivoluzione”, prima che cominciassero gli arresti e si mettessero di mezzo i partiti». Ricorda: «Dovevamo pagare il master di nostro figlio a Parigi e abbiamo finito tutti i risparmi per comprare 35 mila dollari, disponibili solo sul mercato nero a tassi impietosi».
Con la crisi anche il cioccolato è diventato amaro. Le vendite dovevano garantire un sostegno a famiglie in difficoltà, integrando i redditi con piccoli guadagni. Il progetto era partito nel 2016 proprio a Fanar, un sobborgo perlopiù cristiano dove però con la guerra civile in Siria sono arrivati migliaia di rifugiati, quasi tutti musulmani. Come sede del laboratorio era stato scelto il negozio di Pierre: in difficoltà come piastrellista, aveva provato a reinventarsi con una bottega di frutta e verdura prima di rinunciare per la concorrenza al ribasso dei nuovi vicini. In quel locale Miladeh ha insegnato tre volte la settimana. C’è stato un sostegno dall’Italia, attraverso Punto missione, una Ong bresciana socia della Federazione degli organismi cristiani servizio internazionale volontario (Focsiv), ma non è bastato. «Comprare il cacao e gli altri ingredienti è diventato troppo caro», ricorda Hiam, una delle apprendiste, anche lei sulla cinquantina. «Nei supermercati sono arrivati i cioccolatini turchi e chi può acquista quelli, nonostante siano di qualità inferiore, perché costano meno».
Alcune migranti, vittime di sfruttamento, accolte nel centro Caritas a Beirut.
Dimenticate la “Svizzera del Medio Oriente”, Paese di banchieri e imprenditori di successo: con la lira crollata del 90% in due anni, il Libano è in bancarotta. A settembre è tornato alla guida del Governo libanese Najib Miqati, un magnate delle telecomunicazioni che, secondo la rivista Forbes, è l’uomo più ricco del Paese. I conti però non tornano, né per la classe media scivolata in povertà né per i profughi siriani dipendenti dagli aiuti delle Nazioni Unite. A Beirut la tensione è altissima: lo scorso 14 ottobre una manifestazione di affiliati del partito Hezbollah e del movimento Amal davanti al Palazzo di giustizia contro Tareq Bitar, il giudice incaricato dell’inchiesta sull’esplosione al porto, si è trasformata in scontri violenti con scene da guerra civile: il bilancio è di sei morti e almeno trenta feriti.
In Libano ci sono poi le invisibili: le lavoratrici migranti che qui sognavano un’opportunità. Almaz è una di loro. Tiene lo sguardo basso e parla con un lo di voce: «Vorrei vedere mio figlio, che adesso ormai ha quattro anni, ma non ho i soldi per il biglietto aereo e soprattutto mi vergogno a tornare a casa senza nulla», sussurra. «Il mio sogno? Riavere il passaporto e poter andare a Dubai. Lì c’è mia sorella: dice che un lavoro lo troverei». Almaz ha 20 anni. Come migliaia di ragazze dei villaggi, in Libano l’hanno portata i broker, gli agenti di intermediazione, aguzzini al lavoro tra Addis Abeba e Beirut. Alle etiopi va peggio che alle nepalesi e alle filippine perché c’è un divieto governativo che le rende “clandestine” dal primo giorno, confermano gli operatori di Celim Milano e di Comunità volontari nel mondo (Cvm), due Ong impegnate in un progetto di tutela e reinserimento sociale sostenuto anche dall’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo (Aics). Almaz ha lavorato come badante di un’anziana, poi è passata di casa in casa a fare le pulizie, ma i soldi se li sono tenuti i proprietari o se li sono presi i broker. È la legge della kafala, moderna schiavitù che umilia e toglie pure il passaporto: non vale solo in Arabia Saudita o negli Emirati, ma anche a Beirut.
Bernadette, 60 anni, ex allieva di corso di cioccolateria, con sua madre, 91, nella loro casa.
La sua storia Almaz la racconta in un rifugio della Caritas. Ha provato a salvarsi dopo essere stata chiusa in una stanza cinque mesi, ostaggio con altre dieci ragazze. Promettevano di comprarle il biglietto per l’Etiopia, ma lei non ci ha creduto, ha rifiutato nuovi lavori ed è stata picchiata. Accanto a lei c’è Aabha, arrivata dal Nepal e schiava per otto anni; e poi Hope, che pure in Sierra Leone vuole dire speranza, buttata in strada quando hanno scoperto che era incinta. Sono le altre vittime della crisi libanese. Prigioniere come Bernadette, in una stanza piena di ricordi, insieme con la madre 91enne. Anche lei aveva partecipato ai corsi di cioccolateria; oggi ha un cancro, ma non l’assicurazione medica per pagarsi le cure. «Noi libanesi abbiamo sempre accolto tutti, prima i palestinesi e poi gli iracheni e i siriani, che come noi hanno conosciuto la guerra», dice. «Adesso ci sentiamo dimenticati dal nostro Governo, che per noi non fa nulla». La casa di Bernadette sta dietro al porto. Lei ci saluta dal balcone, sopra un garage dove si infilano i gatti: l’onda d’urto dell’esplosione ha trasformato la saracinesca nel mantice di una fisarmonica.
SEI NAZIONI PER UN PROGETTO EUROPEO
Il Progetto triennale europeo Volti delle Migrazioni – Faces of Migration, coinvolge 6 nazioni europee: Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia, Bulgaria, Grecia e Italia e una rete europea di associazioni della società civile GCAP Europe. Obiettivo prioritario e necessario quello di sensibilizzare, formare e informare sul legame tra le migrazioni gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDGs) e le politiche europee. Tra le attività è stato previsto che alcuni giornalisti italiani e stranieri, così come per la missione partita a fine settembre scorso, visitino gli interventi realizzati in Libano dai diversi partner del progetto stesso, tra i quali quelli dei soci Focsiv (Federazione organismi cristiani servizio internazionale volontario).
Testo di Vincenzo Giardina
Foto di Marco Palombi / Focsiv
Foto di copertina: un'immagine del porto di Beirut oggi, dopo la devastazione causata da una gigantesca esplosione il 4 agosto del 2020.
Foto sopra: un'immagine d'archivio del gruppo di donne che partecipavano al corso di pasticceria tenuto da Miladeh, seconda da sinistra.