Contribuisci a mantenere questo sito gratuito

Riusciamo a fornire informazione gratuita grazie alla pubblicità erogata dai nostri partner.
Accettando i consensi richiesti permetti ad i nostri partner di creare un'esperienza personalizzata ed offrirti un miglior servizio.
Avrai comunque la possibilità di revocare il consenso in qualunque momento.

Selezionando 'Accetta tutto', vedrai più spesso annunci su argomenti che ti interessano.
Selezionando 'Accetta solo cookie necessari', vedrai annunci generici non necessariamente attinenti ai tuoi interessi.

logo san paolo
lunedì 14 ottobre 2024
 
dossier
 
Credere

Il caso di Indi Gregory e il cinismo di chi l’ha abbandonata alla morte

16/11/2023  Indi Gregory aveva solo otto mesi, e nessuna colpa. Eppure è stata condannata a morte. Da un tribunale. Bisogna per forza tirare Dio in ballo: senza di Lui, l’uomo è una macchina da buttare quando non funziona più

Condannata a morte. Da un tribunale, l’Alta Corte di Londra. Ma Indi Gregory aveva solo otto mesi, e nessuna colpa. Soffriva di una malattia incurabile. Per ora, perché anche la medicina è scienza se sempre aperta alla possibilità della cura. E dell’imprevisto, se non vogliamo chiamarlo miracolo. Ma per lasciar aperto questo spiraglio di estrema speranza bisogna vivere, perché è vivere il miglior interesse dell’essere umano e ancor più di un bambino. I medici che hanno avuto in carico Indi sostenevano che morire era nel suo miglior interesse.

Questa la sentenza agghiacciante che non ha considerato minimamente la volontà dei genitori, e di un ospedale, il Bambin Gesù, di uno Stato, l’Italia, che si sono offerti di accogliere la bimba e accompagnare la sua famiglia, perché anche questa è cura, la sensibilità, l’abbraccio, la comprensione di affetti distrutti dal dolore. Indi era cittadina italiana, non la proprietà di uno Stato. Indi era malata, ma viva. Si diceva «soffre in modo indicibile». E se è vero che l’accanimento terapeutico era sul crinale di questa vicenda straziante, tocca dar conto a un papà e una mamma che l’hanno vista sorridere guardando la sorellina, ascoltando musica, stringendo la manina. I genitori si illudono, non accettano la verità più amara, si dirà. Ma allora tocca dar conto ai medici che ritenevano di poterla ancora curare. Guarire no, ma fare di tutto perché vivesse, senza patire, finché Dio avesse voluto.

Tiriamo sempre in ballo questo Dio. Perché è così vero davanti al mistero del reale che senza Dio non c’è che disperazione e cinismo. Senza Dio l’uomo è una macchina, cui staccare la spina se non funziona. Senza Dio una macchina rotta è un costo e così se ne sono andati Archie, Charlie, Alfie, Isaiah… Bambini, chiamati per nome e amati. Il Paese culla dei diritti, cuore delle nostre democrazie, nega ai bambini il diritto a vivere, finché Dio vuole. Quel Dio rappresentato nel Regno Unito da un sovrano che è capo della Chiesa, che giura sulla Bibbia. Noi italiani siamo laici, ma ricordiamo ancora che il cristianesimo esalta l’umanesimo, ed è in nome dell’umano che abita ancora in ciascuno di noi, pur soffocato dall’utilitarismo e dall’individualismo dilagante, che Indi è diventata italiana. E qui sarebbe stata trattata da bambina, non da automa. Poi, lo spettacolo indecente di chi ha strumentalizzato ancora una volta il caso, trasformandolo in occasione di scontro ideologico, di propaganda politica. Non muoiono forse bambini tutti i giorni, si sibila. Come se ogni persona non fosse preziosa, unica e irripetibile.

Come se dovessimo pesare le morti su un bilancino. E il tira e molla sulla pelle di una bimba inerme, di una famiglia, a rimarcare a chi spetta il potere, in una gara tra tribunali e Stati. Non dovevamo intrometterci nelle decisioni di un altro Paese, si sussurra. E invece dobbiamo.

Anche perché abbiamo un compito, da trasmettere ai nostri figli: in nome di Indi e di tanti altri uomini e donne che non servono più, che sono un peso, anche solo a guardarli, abbiamo il coraggio di difendere la vita, sempre.

 
 
Pubblicità
Edicola San Paolo