La copertina del libro del generale Burgio in libreria dal 10 novembre
Il generale Carmelo Burgio non sopporta i luoghi comuni, le banalità, la retorica. Il 12 novembre 2003 era a Nassiriya, in Iraq, e stava per assumere il comando dell’Unità specializzata multinazionale (MSU), composta da carabinieri italiani, militari rumeni e portoghesi, quando alle 10.40 del mattino un camion cisterna lanciato a tutta velocità esplose davanti all’ingresso della base militare Maestrale, sede del reggimento, riducendola a un cumulo di macerie, uccidendo 28 persone tra cui 19 italiani (12 militari dell'Arma, cinque dell'Esercito e due civili) e 9 iracheni e provocando 140 feriti. Un’esplosione così forte che investì anche il complesso Libeccio, distante qualche centinaio di metri.
A vent’anni esatti da quella strage, che suscitò un’ondata di emozione collettiva e anche molte polemiche per la natura della missione italiana nel caotico e ambiguo dopoguerra iracheno, Burgio ha messo in fila i ricordi di quelle ore e dei mesi successivi (lascerà Nassiriya il 25 marzo 2004), le commemorazioni di questi anni, l’inchiesta penale che ne è seguita e che s’è chiusa nel 2019 con la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato il generale Bruno Stano, che era al comando della missione, a risarcire le famiglie delle vittime dell’attentato pur essendo stato assolto in sede penale perché, secondo i giudici, ha sottovalutato il pericolo in cui si trovavano i militari in caso di un attentato alla base per la «complessiva insufficienza delle misure di sicurezza».
L’esperienza e i ricordi di Burgio, in pensione da un anno dopo mezzo secolo di vita militare costellata da diverse missioni all’estero (Libano, Bosnia, Albania) e incarichi delicati in Italia, scorrono nel libro Nassiriyah – Dall’attentato alla ricerca della verità (Vallecchi) uscito il 10 novembre.
Generale, questo è un libro che alterna ricordi e j’accuse.
«Ho deciso di scriverlo perché in questi anni l’attenzione si è focalizzata solo sulle persone che hanno perso la vita nel fare il proprio dovere ma io volevo rendere giustizia anche a chi ha avuto il coraggio di restare laggiù dopo quello che era successo. Quando assunsi il comando, pochi giorni dopo la strage, da Roma mi dissero di accettare e mandare avanti subito tutte le richieste di rimpatrio anticipato».
Quante ne ricevette?
«Quarantacinque. In aggiunta ai 52 che si rifiutarono di partire dall’Italia, rischiavo di ritrovarmi con un contingente con il 25% in meno di uomini in una situazione terribile e disastrosa».
Provò a farli restare?
«Scrissi una lettera che, ho saputo dopo, molti hanno conservato, e che si concludeva con una citazione di Shakespeare, il discorso che il re Enrico V fece ai suoi uomini prima della battaglia di Azincourt: “Lasciate che chi non ha voglia di combattere se ne vada. Dategli dei soldi perché accelerino la loro partenza… Noi pochi, noi pochi felici, noi banda di fratelli”. Poi li convocai nel mio ufficio e gli dissi:“Io non posso trattenervi contro la vostra volontà ma sappiate che se noi moriamo in un altro attentato qui nessuno di chi se n’è andato deve presentarsi al funerale”».
Funzionò?
«Trentaquattro stracciarono la domanda, undici se ne andarono».
Lei scrive che i caduti non sono i soli eroi di Nassiriya.
«Hanno fatto il loro dovere pagando con la vita e meritano il massimo riconoscimento e gratitudine. Si è guardato al fatto che sono morti ma non al perché sono morti».
Che risposta si è dato?
«La sicurezza della base non era adeguata a proteggere il contingente. Me ne accorsi subito appena arrivato e lo feci presente. Io avrei chiuso il ponte e le strade attorno alla base ma mi risposero che non si poteva intralciare il traffico della città nonostante ci fossero altri tre ponti per il transito delle persone. C’è una circolare dello Stato maggiore della Difesa che stabilisce in maniera precisa quali debbano essere le misure di sicurezza di una base. A Nassiriya non erano rispettate. Salvo dire dopo, durante i processi, che c’erano situazioni contingenti e particolari per sistemare la base in quella maniera».
All’epoca molti, in Italia, chiesero l’immediato rimpatrio dei nostri militari perché quella irachena non era una missione di pace.
«Le missioni di pace non esistono. Utilizziamo questa parola perché ci fa sentire più buoni e, magari, riduciamo questo tipo di lavoro al dono del peluche e delle caramelle ai bambini. Servono anche questi gesti, certamente, che aiutano a conquistare l’affetto della popolazione e li abbiamo fatti anche a Nassiriya. In Iraq, bisogna dirlo con franchezza, c’era una guerra a tutti gli effetti e noi dovevamo difenderci dagli attacchi dei terroristi e, al contempo, ridare una vita normale a quella popolazioni. Cosa che è avvenuta perché molti hanno riaperto i negozi, riavuto l’energia elettrica in casa, ricominciato a lavorare. La missione serve per obbligare dei contendenti a non combattere. In questo senso si definisce "di pace", ma la si compie pronti a fare la guerra, se necessario. Se tu non hai i mezzi per fare in modo di non subire attacchi o per difenderti in caso di attacco significa mettere a rischio la vita di tutti. Quando le milizie dei partiti locali iracheni sequestrarono due grossi imprenditori, se noi fossimo andati con i fiori in mano e non con i fucili e utilizzando tecniche da combattimento non penso che ce li avrebbero ridati. Anzi, avrebbero ammazzato pure noi. I colleghi portoghesi che facevano parte dell’MSU erano venuti lì dopo l'attentato, pensando di dover svolgere una missione umanitaria, e faticarono inizialmente a capire. Non era così, purtroppo».
Quali erano i compiti del contingente?
«L’Unità specializzata multinazionale (MSU) è fatta per gestire operazioni di ordine pubblico quando la guerra è finita. Può svolgere indagini sui crimini di guerra e altro, ma non è nata per combattere. Gli unici uomini addestrati a questo scenario erano i carabinieri del 1° Reggimento paracadutisti del Tuscania. Ciononostante, tutto l’MSU dopo l’attentato si è ritrovato in uno scenario di guerra ed ha reagito benissimo facendo la propria parte. Piaccia o no, la controparte che avevamo di fronte faceva la guerra con gli attentati e i rapimenti, non mi sento neppure di criticarli. Stava alla coalizione internazionale creare le condizioni per evitare quegli attacchi»
Nel libro scrive di non provare «nessun affetto per gli iracheni». Perché?
«Quando sei in una situazione del genere e ti hanno ucciso 19 persone il tuo primo compito come comandante è conseguire la missione che ti è stata affidata e salvare i tuoi e riportarli tutti salvi a casa. Il secondo, se sei un soldato d'onore, è quello di rispettare le regole. E quando si rispettano le regole non c'è bisogno d'affetto. Il mondo arabo è radicalmente diverso dal nostro. Laggiù la bontà rischia di essere scambiata per debolezza».
Quanto è rimasto a Nassiriya?
«Quasi cinque mesi. Al rientro in Italia sono andato a dirigere il Comando provinciale dei carabinieri di Caserta dove c’era tantissimo lavoro da fare in un terra difficile con in primo piano la lotta alla camorra. Il tanto lavoro mi ha in un certo senso salvato perché mi ha permesso di non pensare a quello che era accaduto in Iraq. Ero macerato dai rimorsi».
Cosa si rimproverava?
«Di non aver insistito di più, appena arrivato e prima di assumere il comando, che la base non fosse sicura e che le persone non fossero adeguatamente protette. Anch’io sentivo la responsabilità di quelle morti ed è qualcosa che può portarti nel baratro. Un comandante vuole riportare tutti i suoi uomini a casa ma è anche vero che in guerra si devono affrontare situazioni eccezionali che richiedono l'assunzione di responsabilità eccezionali ma spesso noi avevamo le mani legate ed ancora si è imbrigliati da normative assurde».
Faccia qualche esempio.
«Una delle polemiche sorte in questi anni riguardava il fatto che le regole antinfortunistiche previste dalla normativa italiana dovessero essere applicate anche ai contingenti in missione all’estero con il paradosso che le stesse leggi valevano per la normale caserma in Italia e per lo scenario di guerra in Iraq. Assurdo. Allora avremmo dovuto condannare tutti quei comandanti che si sono trovati i soldati congelati durante la ritirata di Russia, perché non gli hanno garantito delle strutture dove poter stare al caldo e senza pericoli?».
Lei ha disobbedito spesso?
«Subito dopo l’attentato con le macerie ancora fumanti mi venne dato l’ordine per telefono da Roma di far vigilare la base Maestrale distrutta dopo che c’erano state scene di saccheggio. Qualcuno aveva rubacchiato qualche banconota, un vecchio materasso e altri arnesi. Io feci una valutazione tecnica e giunsi alla conclusione che non avesse senso far rischiare la vita ad alcuni miei uomini facendogli fare la guardia di notte sapendo che potevano essere colpiti alle spalle senza aver nulla più da difendere. Chiesi che mi venisse messo l’ordine per iscritto. Non lo fecero e il giorno dopo non si fece più la guardia. Feci lo stesso quando mi fu detto di riaprire il ponte, chiuso dopo l'attentato. Volevo che chi me lo ordinava lo mettesse per iscritto, mi assumevo le mie responsabilità e rischiavo la vita mia e dei miei uomini, ma chi dava certi ordini ritenevo dovesse assumersi le sue. Il problema è che nelle missioni di guerra quando va tutto bene è merito e bravura di tutti, quando va male la colpa è solo di chi sta sul terreno».
Cosa resta di Nassiriya vent’anni dopo?
«Il mio vice all’epoca, il generale Michelangelo Grassi, è morto con questo tormento: “Perché”, mi diceva sempre, “noi che abbiamo rimesso il treno sui binari siamo caduti nell’oblio?”. Nassiriya non è stato solo l'attentato, ma anche tonnellate di munizioni trovate, migliaia di armi sequestrate, servizi di controllo a difesa degli iracheni, liberazione di ostaggi taglieggiati dai terroristi e criminali locali. I caduti sono stati giustamente onorati, quelli che sono venuti dopo e che hanno rimesso in piedi tutto in una situazione drammatica dimenticati».