Cari amici lettori, mi ha colpito la vicenda di Donatella Hodo, che si è suicidata in carcere lo scorso 2 agosto.
La giovane vi entrava e ne usciva per piccoli furti legati alla droga. Aveva problemi di dipendenza ed era molto fragile. Una vicenda triste, ma a colpirmi sono state soprattutto le parole del giudice di sorveglianza, Vincenzo Semeraro, all’indomani del funerale della donna. In una intervista ha dichiarato: «Siamo persone prima che giudici. E io, come magistrato ma soprattutto come uomo, sento di aver fallito adesso che una ragazza di 27 anni di cui mi occupavo si è tolta la vita in carcere».
Il magistrato, nell’intervista, si interroga sulle sue responsabilità, su cosa avrebbe potuto fare di più, sui suoi eventuali sbagli. Parole che gli fanno onore e di una rara onestà, che rivelano una coscienza abituata a interrogarsi e a valutare il proprio operato. Purtroppo, come constatiamo in tutti gli ambiti, la colpa è piuttosto “di qualcun altro”: molti di meno sono coloro che si interrogano sulla qualità delle proprie azioni e sulle loro conseguenze per gli altri
Eppure, questo è il cuore della responsabilità: rispondere delle proprie azioni. I maestri spirituali parlano di esame di coscienza: sant’Ignazio lo pone al di sopra di ogni pratica di pietà, perché il contatto con la propria coscienza, che risponde a un Tu (Dio per chi crede, altre istanze etiche per chi non crede) delle proprie azioni è fondamentale per esercitare bene la libertà che ci è data.
Questo atteggiamento, cari amici, dovrebbe appartenere soprattutto alla nostra coscienza cristiana: il saperci parte di una rete umana (familiare, sociale, lavorativa), dove quello che facciamo si trova sempre in un vincolo con il prossimo.
Il cristiano risponde a Dio di sé e degli altri cui è legato. Mi piace ricordare in proposito una santa che abbiamo festeggiato da poco, Edith Stein ovvero Teresa Benedetta della Croce. Ebrea, atea, docente universitaria di filosofia, visse una “conversione” radicale alla fede in Cristo e divenne monaca carmelitana scalza, di clausura, finendo – a causa della persecuzione razziale nazista – nelle camere a gas di Auschwitz il 9 agosto 1942.
Suor Teresa presentiva già nel 1939 la possibilità di morire a causa del nazismo. Scriveva nel suo testamento: «Da ora accetto con gioia la morte che Dio mi ha riservato... Chiedo al Signore che voglia accettare la mia vita e la mia morte per il suo onore e la sua esaltazione, per tutte le intenzioni dei santissimi cuori di Gesù e Maria e della santa Chiesa, soprattutto per la conservazione, la santificazione e il perfezionamento dell’Ordine del Carmelo…, come espiazione per l’incredulità del popolo ebraico, affinché il Signore sia accolto dai suoi e il suo regno venga nella gloria, per la salvezza della Germania e per la pace del mondo; infine per i miei parenti, vivi e defunti, e per tutti coloro che Dio mi ha dato: perché nessuno di loro si perda».
Ecco cosa significa responsabilità, che santa Teresa legge come “offerta d’amore”: lei, monaca di clausura, sente il vincolo con le vicende della sua famiglia, del suo ordine, dei suoi correligionari, della sua nazione, dei defunti, del mondo intero. Ha acquisito veramente la “scienza della croce” di Cristo da lei tanto meditata. Un esempio alto, senza dubbio, ma che ci interroga sulla capacità di “sentire” gli altri come parte di un destino comune.
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