Nelle scuole, oltre a imparare, si impara a vivere. Eppure, non tutti i bambini vivono la scuola come un luogo di inclusione. Alcuni sono invisibili agli occhi dei pari, esclusi dai giochi e ignorati dai gruppi. Ma se la solitudine di un bambino diventasse improvvisamente evidente agli occhi degli adulti, le cose potrebbero cambiare? È esattamente quello che hanno verificato Sule Alan (Cornell University), Michela Carlana (Università Bocconi) e Marinella Leone (Università di Pavia) in uno studio sperimentale intitolato Inclusive Teaching: Spotting Social Isolation in the Classroom (forthcoming su AEJ: Policy). Nel corso dell’anno scolastico 2022/2023, le ricercatrici hanno coinvolto 46 scuole primarie pubbliche in Lombardia, Piemonte e Lazio. Ai docenti di metà delle scuole è stato consegnato un semplice strumento: una mappa della rete di amicizie della propria classe, costruita partendo dalle indicazioni dei bambini stessi, accompagnata da dati e informazioni scientifiche sui rischi dell’esclusione sociale, in particolare per studenti con background migratorio o status socioeconomico più basso. Dopo sei mesi, i ricercatori hanno rilevato effetti tangibili: la probabilità che un bambino non avesse alcun amico in classe si è ridotta del 50% rispetto al gruppo di controllo. Gli alunni nelle classi trattate hanno ricevuto più nomination come “migliori amici”, segno di una maggiore inclusione. Ma c’è di più. Gli studenti coinvolti nel trattamento erano anche meno inclini a comportamenti antisociali, misurati tramite un gioco sperimentale in cui potevano “sabotare” anonimamente un compagno per ottenere un vantaggio materiale. Nelle classi trattate, la propensione al sabotaggio è scesa dell’11%. Nessun effetto, invece, su comportamenti prosociali come la cooperazione o la donazione. Per quantificare gli effetti collettivi, il team di ricerca ha simulato i risultati aggregati della “classe come comunità”: quanto rendimento si perde per colpa di atti antisociali? Nei gruppi trattati, i ricercatori hanno registrato un aumento del payoff medio (cioè del “benessere economico” simulato) e una significativa riduzione della diseguaglianza interna, misurata tramite l’indice di Gini. In altre parole, meno sabotaggi equivalgono a più benessere per tutti. Il costo dell’intervento? Solo 21 dollari per studente.



Una scuola più giusta e inclusiva è possibile

Abbiamo approfondito le implicazioni pratiche della ricerca con una delle studiose coinvolte, Michela Carlana, professoressa Associata ad Harvard e direttrice di LEAP-Bocconi.

Che legame c’è tra inclusione e benessere in senso ampio?

«L’inclusione scolastica non riguarda solo la qualità delle relazioni tra bambini, ma ha effetti diretti sul benessere individuale e collettivo. Un bambino che non si sente escluso sviluppa più fiducia, meno ansia e migliori capacità sociali. A livello di gruppo classe, più inclusione significa meno conflitti, meno comportamenti antisociali e un ambiente di apprendimento più sereno. In altre parole, l’inclusione è una condizione necessaria perché ci sia benessere diffuso, non solo a scuola ma anche nella società futura».

Come possiamo tradurre al meglio in italiano Laboratory for Effective Anti-poverty Policies e quali sono i suoi obiettivi primari?

«La traduzione più fedele è Laboratorio per Politiche Efficaci di Lotta alla Povertà. Il LEAP nasce con l’obiettivo di produrre ricerca scientifica rigorosa per disegnare, testare e valutare politiche pubbliche che riducano la povertà e le disuguaglianze, sia in Italia sia a livello internazionale. L’approccio è basato su dati e sperimentazioni di campo, in collaborazione con istituzioni pubbliche e private, per trasformare l’evidenza scientifica in politiche concrete».

Gli insegnanti sono chiamati a rispondere a troppe sollecitazioni e rischiano di non notare nuclei di isolamento e sofferenza?

«Sì, è proprio ciò che lo studio mostra: gli insegnanti spesso sottostimano l’isolamento sociale, non per mancanza di attenzione, ma perché è un fenomeno invisibile. Il carico burocratico e didattico rende ancora più difficile cogliere questi segnali sottili. La ricerca dimostra che basta fornire strumenti semplici e mirati – come le mappe di rete di amicizia – per rendere visibile ciò che normalmente sfugge, senza gravare ulteriormente sul lavoro degli insegnanti».

Rompere l’isolamento nella scuola primaria è anche un modo per prevenire problemi ancora più gravi nell’adolescenza?

«L’esclusione prolungata durante l’infanzia è un fattore di rischio per ansia, depressione, bullismo, scarso rendimento e abbandono scolastico in adolescenza. Intervenire presto significa ridurre la probabilità che queste difficoltà diventino croniche. Creare un ambiente inclusivo nella primaria non è solo una misura “di breve periodo”, ma un vero investimento sul futuro benessere psicologico e sociale dei ragazzi».

Questo tipo di mappatura delle relazioni può essere applicato anche nei gruppi classe della secondaria di primo grado?

«Sì, anzi in quella fascia d’età può essere ancora più utile anche se ulteriori ricerche dovrebbero investigare l’effetto di un intervento durante la secondaria. Nella secondaria i gruppi diventano più complessi, con dinamiche di esclusione e popolarità ancora più forti. Uno strumento che renda visibili le reti sociali potrebbe aiutare gli insegnanti a intercettare precocemente situazioni di isolamento, che nell’adolescenza rischiano di avere conseguenze ancora più marcate».

Dopo la fase sperimentale ci sarà un altro step?

«L’obiettivo è portare questo approccio oltre la fase sperimentale e renderlo parte di pratiche educative diffuse. Il passo successivo è collaborare con scuole e istituzioni per rendere la mappatura e il monitoraggio delle relazioni uno strumento semplice, accessibile e sostenibile nel tempo. L’esperimento ha dimostrato che con costi minimi si possono ottenere benefici importanti: ora la sfida è scalare l’intervento e come LEAP collaboriamo ogni anno con molte scuole per aiutarle proprio con questo e molti altri progetti».