Caro don Stefano, non mi scandalizza più di tanto che nella Chiesa ci siano stati – e ci siano – abusi sessuali, anche sui minori (è dei giorni scorsi il caso dell’Abbé Pierre). Forse, più o meno inconsciamente, l’ho sempre saputo. La Chiesa che ho conosciuto nei miei tenerissimi anni ne sarebbe stata capace. Rigorista e anaffettiva come era. Ossessionata dal sesso e dal peccato. Soprattutto quello sessuale.
Il ricordo cosciente che ne ho – su quello finito nell’inconscio ho grossi dubbi di aver rimosso per sopravvivere – è di una piovra che mi teneva stretta fra i suoi tentacoli fino a soffocarmi. In nome di Dio. Non c’è niente di peggiore sulla faccia della terra: utilizzare il desiderio – il bisogno – di Dio connaturato all’umana natura per dominare sulla coscienza, acerba e fragile, di un bambino. Una ferita che mai si chiuderà, un trauma che non troverà mai una qualche via d’uscita. Perché come ci si rappresenta Dio nelle oscure profondità dell’anima è questione di vita e di morte. Di vita: perché può rovinartela come nessun altro. Di morte: perché sapere di doverlo ritrovare anche al di là è terribile e irrevocabile inferno già su questa terra.
Non mi turba più di tanto – da cristiana quale, nonostante tutto, ho cercato di rimanere – che le chiese si svuotino: di un Dio siffatto è meglio che non resti traccia. Ci vorrà molto tempo perché il Dio di Gesù possa riemergere dalle macerie di quella vulgata catechistica. Ci vorrà molto tempo per ritornare a sentirsi a casa e ad affidarsi senza timore alle braccia di “santa Madre Chiesa”. Almeno per chi, come me, l’ha vissuta come un’arcigna matrigna quando la mente e il cuore erano troppo indifesi per reggerne il confronto.
La mia voce è una, e troppo flebile, per arrivare a essere ascoltata a livelli un po’ più alti del nostro comune vivere e sentire. Ma davvero al Sinodo non si potrebbe mettere sul tavolo con parresia questo tema così terribile e così delicato? O bisognerà rassegnarsi a “camminare” ai margini della via, come vecchie pecore stanche e ferite, di cui nessuno si prende cura?
V. E.
Grazie della tua bellissima lettera e della tua sofferta testimonianza. Non sei la prima che mi scrive sui dolorosi trascorsi della propria infanzia nei contesti ecclesiali. Sono tante le persone che hanno sofferto sulla propria pelle la rigidità con cui la Chiesa molto tempo fa preparava i suoi giovani alla vita di fede.
La Chiesa sta vivendo oggi un tempo di grande purificazione: dalla grande difficoltà di riuscire a parlare in modo convincente al mondo di oggi – ai giovani, ma anche alle donne, da sempre la sua base più attiva e dinamica nelle parrocchie –, alle sue divisioni interne; dalla fatica di entrare tutta quanta, anima e corpo, nel complesso capitolo “sinodalità” (che richiede di voler morire a certe abitudini), alla triste realtà degli abusi sessuali venuti a galla in molti Paesi, il cui prezzo che sta pagando – non solo in termini economici, ma soprattutto di immagine e quindi di affidabilità – è altissimo.
Questi, in particolare, sono un capitolo della più grande questione degli abusi di coscienza, da cui ogni altro abuso deriva, e che hanno una delle loro cause nel clericalismo (un pericolo non solo per i preti ma anche per i laici), spesso denunciato senza mezzi termini da papa Francesco. Amedeo Cencini ha scritto: «L’abuso appartiene sempre a un processo di corruzione e trasformazione dell’autorità legittima in una dinamica perversa di potere, supremazia, dominio, di possesso nei confronti di una o più persone che si trovano in una situazione di vulnerabilità esistenziale e di dipendenza».
La Chiesa, per rimediare agli abusi sessuali, ha preso di petto la situazione ed è passata all’azione, introducendo una serie di accorgimenti in chiave preventiva e procedurali in caso di abusi conclamati che oggi proteggono in modo efficace le persone più vulnerabili.
Credo che nel tuo caso – e in genere in quello di tante persone che come te hanno molto sofferto per quella che chiami “vulgata catechistica” – si sia trattato di una prassi pedagogica e formativa estremamente rigida che era comune allora e che ha prodotto in molte persone danni psicologici e non di rado l’allontanamento dalla fede (un abuso di coscienza rimane tale anche se compiuto in buona fede e seguendo le “buone” regole di allora).
Alla sua base c’era, come spieghi tu, una visione rigida, ossessionata dal sesso e tutta concentrata sulla lotta contro il peccato (che oggi, però, per reazione è quasi del tutto negletta, e anche questo non è un bene). All’epoca la società era ancora lontana dallo scoprire le complesse dinamiche interiori dell’uomo che le scienze umane, in particolare la psicologia, in questi ultimi decenni ci hanno rivelato.
E anche il pensiero teologico ha fatto il suo bel cammino. L’educazione che veniva impartita un tempo era frutto di una visione di Chiesa gerarchica, piramidale (dal Papa giù giù fino al popolo di Dio), che calcava la mano sul principio di autorità (che se mal concepito, come detto, è legna sul fuoco per ogni forma di abuso). E aveva riguardo alle verità rivelate una visione rigida, per cui Dio poteva apparire più come una specie di giudice severo, a cui era dovuta per paura cieca obbedienza, che un Padre misericordioso.
L’obbedienza a Dio è un atteggiamento fondamentale nella vita cristiana (al punto da essere anche un voto religioso), ma si è oggi consapevoli che si tratta di un cammino dall’esito sempre incerto e limitato, di un rapporto personale e intimo con il Padre e il Figlio nello Spirito Santo, a cui il catechista e il formatore devono iniziare la persona, rispettandone i tempi e accompagnandolo con delicatezza.
Oggi, grazie al Concilio Vaticano II, abbiamo una visione comunionale della Chiesa (come “popolo di Dio” in cammino, dove il potere è concepito come servizio) e una prospettiva dialogica del rapporto uomo-Dio, come di due amanti impegnati in un dialogo di amore, che chiede alla persona tempo e approfondimento continuo per essere integrato nella propria vita personale.
Il Sinodo sta affrontando la questione degli abusi sessuali. Il resto lo ha fatto una profonda revisione dei metodi pastorali. Restano i danni del passato. A te il consiglio di non sentirti abbandonata, costretta ai margini della Chiesa e di fare un cammino di perdono, la vera porta verso la pace (la testimonianza di Lara nell’Angolo della speranza nella pagina precedente è illuminante, ma leggi anche Fuorigioco di Antonio Mazzi a pagina 12). Cerca, se non lo hai già, qualcuno che possa aiutarti nel cammino di preghiera e nella meditazione del Vangelo per riscoprire il vero volto del Dio amante che era nascosto dietro quella visione rigida.
La guarigione, poi, avviene sempre in comunità, mai da soli. Solo nel perdono c’è futuro. Solo in una comunità c’è guarigione.