La parabola proclamata nella liturgia della quarta domenica dopo la Pentecoste è l’ultima di un gruppo di tre che l’evangelista Matteo fa raccontare da Gesù poco prima della sua Passione. Destinatari del discorso sono i capi del popolo: assetati di potere e di denaro, anziché servire Dio curandosi dei poveri come buoni pastori, difendono interessi di parte, intrallazzando con i potenti e opprimendo i poveri.
Le espressioni iniziali della parabola aiutano a comprenderne l’obiettivo. Il verbo “rassomigliare”, infatti, indica che le immagini del racconto sono un termine di paragone per chiarire quale sia il volto di Dio in cui si crede. In sostanza, Gesù sta provocando così suoi interlocutori: «Se rappresento così il volto di Dio, cosa ne pensi? Gli somiglia? Convince? Lo vorresti un Dio così?».
Gli ascoltatori avevano bene in mente ciò che avveniva nei banchetti di un sovrano di quel tempo o di chiunque altro avesse potere, una corte, dei soldati e un territorio da governare. I banchetti erano meeting politico-economici, in cui si invitavano nobili, ricchi, proprietari terrieri per ragioni di prestigio e per stringere alleanze o accordi commerciali. A volte avevano anche scopi populistici e demagogici quando si invitava il popolo a parteciparvi, cercandone il favore.
In quelle circostanze, erano frequenti anche scene come quella dell’espulsione finale: un potente che subiva un affronto pubblico non esitava infatti a punire il responsabile arrestandolo e torturandolo nelle segrete di cui i palazzi erano di frequente dotati. Anche la brutalità e la sproporzione delle reazioni per le offese subite sono storicamente attestate: incendi di intere città, devastazioni, deportazioni. Le immagini della parabola, dunque, non erano semplici metafore frutto di fantasia, ma esempi tratti da una realtà effettiva portatrice di sofferenze umane e di gravi ingiustizie. Possibile che Gesù intendesse attribuire a Dio atteggiamenti simili? Improbabile. Inoltre, nel testo di Matteo, il mondo giusto di Dio – il «regno di Dio» – è sempre posto in contrapposizione radicale e alternativa alle ingiustizie mondane. Cioè, secondo l’evangelista, Dio si comporta in tutt’altro altro modo rispetto ai potenti del mondo: non usa la violenza, la rappresaglia, la minaccia; non strumentalizza i poveri; non priva della libertà; non è permaloso né umorale; non accetta solo chi presenta crediti adeguati e via dicendo.
La parabola afferma, allora, in modo controintuitivo: Dio non è affatto così! Gesù, raccontandola, chiede implicitamente di rispondere alle ingiustizie instaurando il mondo di Dio, quello annunciato con il suo Vangelo di guarigione e prossimità ai poveri. Il versetto finale è dunque un invito a chi ascolta perché prenda posizione: in un mondo in cui la maggior parte – i «molti chiamati» – è tentata di agire con le stesse logiche e metodi del sovrano del racconto, coloro che scelgono il Vangelo – «i pochi eletti» – devono essere alternativi praticando la giustizia del Regno, radicalmente opposta.