Il brano evangelico, che ci propone la liturgia della terza domenica dopo Pentecoste, chiede al lettore di avere attenzione per le cornici in cui si trova inserito: quella della cultura in cui si svolgono i fatti narrati e quella del contesto immediato del testo di Marco in cui si trova inserito.
Partendo dalla prima delle due, non è affatto superfluo ricordare che il contesto sociale e religioso del tempo di Gesù aveva una fortissima impronta di stampo patriarcale, nella quale la disparità di diritti e opportunità tra uomini e donne era molto marcata. Queste ultime si trovavano così in una pesante condizione di subalternità, per non dire di sudditanza, nei confronti degli uomini della famiglia cui appartenevano, fosse quella di origine o quella acquisita con il matrimonio. Pur non potendoci dilungare molto, è necessario almeno evidenziare che il comportamento maschile normalmente accettato e riconosciuto nei confronti delle donne era quello padronale, che conduceva a trattarle, in sostanza, come parte delle proprietà di famiglia.
Cambiare moglie secondo capriccio era un dato che confermava una disparità di potere, diritti e dignità tra i coniugi dai tratti disumani. Limitare questa deriva era già l’obiettivo dell’ordinamento stabilito dalla legge mosaica, che con l’istituto dell'atto di ripudio cercava di mettere qualche argine al fenomeno.
Avendo presente questi elementi culturali, la seconda cornice costituita dai versetti di Marco successivi a quelli in oggetto (10,13-16) è illuminante, poiché in essi vediamo Gesù indignarsi nell’osservare i discepoli fare i forti contro i deboli, alzando la voce sui bambini. Di questi il Maestro prende le parti, affermando che il regno di Dio non è affare di “potenti”, bensì il contrario e chi intende entrarvi deve imparare la legge di Dio che non è affatto un potente che spadroneggia sull’umanità, ma un padre amante che cura in ogni modo i suoi figlie e le sue figlie, specie se fragili. Nessuno ha il diritto di dominare sulla vita altrui, che siano donne, bambini o chiunque altro.
In questo senso va letto il richiamo che Gesù fa, rispondendo ai suoi interlocutori, proprio ai versetti di Genesi che troviamo nella prima lettura. Il racconto della primordiale creazione umana è limpido nel descrivere la qualità che le relazioni umane devono avere nel disegno di Dio. In risposta alla solitudine Dio crea l’incontro. Pone due esseri di pari valore, dignità e poteri, pur nella loro diversità, uno di fronte all’altra. La posizione non è affatto casuale, poiché è quella che permette di riconoscere l’altro come tale e che richiama ciascuno alla consapevolezza di non essere l’unico al mondo, dovendo condividere lo spazio con l’altro. Dovranno incontrarsi, confrontarsi e anche fronteggiarsi, riconoscendosi però sempre vicendevolmente, senza usurpare mai lo spazio di vita altrui.
Gesù, di fronte a presunte questioni di diritto matrimoniale, coglie l’occasione per annunciare di nuovo il Vangelo della relazione: essere gli uni per gli altri principio di vita, rifiutando logiche di potere spersonalizzanti e umilianti.