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LA MISSIONE IN CIAD
In quella regione il cristianesimo è arrivato solo un secolo fa per iniziativa di alcuni luterani americani, e nel 1957 è planato sul lago di Léré con un idrovolante il primo cattolico, Raoul Martin, Oblato di Maria Immacolata, che ha percorso il territorio abitato dall’etnia locale, i Mundang, fino a Bissi Mafou. La capitale N’Djamena è distante 500 chilometri, quasi tutti di strada sterrata, nel villaggio non c’è rete idrica né elettrica, e la gente vive di pastorizia e agricoltura. «Arrivato qua, ho dovuto spogliarmi di tanti luoghi comuni e pregiudizi, e apprezzare riferimenti nuovi», racconta. «Per esempio, il valore del tempo: noi occidentali progettiamo molto, loro sono consapevoli che il futuro non è nelle nostre mani. È stata una scuola di vita, una provocazione a tornare bambini e a ricomprendere cosa davvero tiene in piedi l’esistenza. La compagnia con i tre sacerdoti giunti prima di me — due ossolani e un ciadiano — e con due missionarie laiche è stata fondamentale: la vita in comunità aiuta a capire qual è il progetto di Dio sulla mia vita, che spesso non è quello che ho in mente io. La dimensione comunitaria, che in Europa è da tempo in declino, nella cultura africana è invece un aspetto fondamentale. Vivere significa vivere insieme, c’è una frase dei Mundang che suona come un insulto: “Tu sei uno che cammina da solo”. Il risvolto della medaglia è che la persona viene considerata solo in quanto appartenente al clan; il cristianesimo intercetta questo valore e lo dilata in una dimensione “extraclanica”, in cui la persona è guardata per il suo valore infinito pur dentro un’ottica comunitaria». Da tempo il Ciad conosce una stagione di instabilità segnata dall’uccisione del presidente Idriss Deby — che era al suo sesto mandato consecutivo —, seguita dalla presa di potere da parte dei militari e dalla repressione delle proteste popolari. Al confine con la Nigeria continuano gli scontri tra l’esercito e le milizie del movimento fondamentalista islamico Boko Haram e al confine con la Libia sono attive altre formazioni di ribelli.
UNA CHIESA CHE "ATTRAE"
Nel Paese i musulmani rappresentano circa il 55 per cento della popolazione e sono presenti soprattutto nelle regioni settentrionali. In questi anni l’Arabia Saudita e altri Stati del Golfo hanno investito massicciamente nella costruzione di moschee e in campagne di proselitismo che hanno “prodotto” molte conversioni. Sono arrivati anche religiosi di formazione wahabita che predicavano un islam radicale e aggressivo, poi espulsi per iniziativa del presidente Deby. «Nella nostra zona la convivenza con i musulmani è pacifica», racconta Nur. «La stragrande maggioranza degli abitanti segue le religioni tradizionali, i cristiani sono circa il 10 per cento ma in questi anni continuano ad aumentare coloro che chiedono il Battesimo. Qualcuno perché pensa di farne un veicolo di ascesa economica e sociale, altri sono incuriositi e affascinati da amicizie con cristiani e scoprono nel Vangelo la strada maestra per l’esistenza. I vescovi peraltro hanno stabilito regole molto severe ed esigenti per evitare conversioni di comodo; ma al fondo c’è sempre di mezzo il mistero della libertà di ciascuno. E comunque l’esperienza che stiamo facendo qui a Bissi Mafou conferma quello che va ripetendo papa Francesco: la Chiesa cresce per attrazione, non per proselitismo». Per questo don Nur e i suoi confratelli concepiscono la missione come la nuda testimonianza di ciò che ha conquistato la loro vita. Più che inventare strategie, si tratta di mostrare un tesoro che va messo a disposizione di tutti. «Vivere il Vangelo qui significa accettare ogni giorno la sfida dell’essenzialità, condividere nella semplicità le necessità della gente e offrire a tutti la testimonianza di Gesù, nella consapevolezza che la vita è un viaggio verso l’altro, e si può essere missionari in ogni contesto. È una logica che non conosce confini geografici o generazionali e ci aiuta a riscoprire cosa significa essere Chiesa cattolica, cioè universale». Continua don Nur: «Per noi italiani in particolare, che abbiamo “generato” tante figure di missionari partiti per ogni latitudine, è una rivoluzione copernicana, un cambio di prospettiva radicale: per molto tempo abbiamo fatto conoscere il Vangelo in terre lontane, ora da quelle terre arrivano a noi testimoni del Vangelo». «Hanno il volto», esemplifica, «di tanti migranti provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America latina, o di sacerdoti stranieri che hanno messo radici nel nostro Paese e svolgono la loro attività pastorale nelle parrocchie o al servizio delle comunità etniche. Anche l’Italia è da tempo terra di missione e Gesù si manifesta grazie alla loro testimonianza. Giorni fa un amico del Togo che vive sul lago Maggiore mi raccontava che una ragazza italiana aveva imparato da lui, giovane africano, a fare il segno della croce: nessuno glielo aveva insegnato prima».
Foto di Ugo Zamborlini
Chi è
Età 41 anni
Vocazione Sacerdote
Diocesi Novara
Fede «È la nuda testimonianza di ciò che ha conquistato la mia vita»
Prete in uscita
Don Nur El Din Nassar nasce a Domodossola nel 1980. Il padre Adel Nassar era musulmano, la madre Ines Rovereti è cattolica, entrambi praticanti. Attorno ai 17 anni, grazie anche all’incontro con un prete di ritorno dall’Africa, don Valentino Salvoldi, viene attratto da Gesù e dal Vangelo e matura la sua vocazione. Nel 2012 è ordinato sacerdote della diocesi di Novara e, dopo aver svolto il suo ministero fra i giovani in diverse parrocchie, nel 2018 parte come missionario fidei donum per il Ciad. Vive a Bissi Mafou, un villaggio di savana al confine con il Camerun e opera all’interno di un’équipe formata da tre preti e due volontarie laiche.



