Un giovane sacerdote ha posto fine alla sua vita. Un fatto che ha turbato e fatto troppo parlare.

Perché se il silenzio è la sutura troppo rapida di una ferita e non è normale né giusto (le ferite devono suppurare e rimarginarsi col tempo), le parole possono essere vuote o scontate. Sono condite di commiserazione, di pena, con il non detto del “chissà poi perché”, che può essere velenoso.

Sono frettolose e a bassa voce perché condite di moralismo, come se da un prete ci si aspettasse saldezza, coerenza e coscienza di essere un fulgido esempio. Come se un prete non fosse uomo, quindi fragile, o malato, o spossato, fino a confondere la ragione e le ragioni di una decisione per la vita, e la vita eterna.

Ma troppe parole, piegate a commento su autorevoli testate, tentano di spiegare la tragedia di un suicidio improvviso e impensato con sottili o più dichiarate polemiche. Il bersaglio è il solito: la Chiesa.

Che non sta al passo coi tempi. Che non capisce le esigenze della modernità. Che non offre adeguati supporti psicologici. Che non permette ai preti di sposarsi (si finisce sempre lì) per essere meno soli.

Si tratta, a ben riflettere, di assurdità: la Chiesa non è mai stata al passo coi tempi cui il mondo forzatamente la spinge, ma da 2000 anni è sempre stata nel proprio tempo, rispondendo alle sfide, con gli errori e le benedizioni del proprio tempo.

La modernità cosa chiede, anzi pretende dagli uomini e dalle donne, quindi pure dai preti? Di uniformarsi a un pensiero comune, di trasformare ogni desiderio in diritto, di esporsi sui social, di essere sempre sul pezzo.

Magari la Chiesa si sentisse libera dai suoi condizionamenti.

La psicologia poi è una scienza nobile, di grande aiuto. Ma psicologizzare troppo, riducendo a problema ogni debolezza, ogni difficoltà, siamo sicuri sia il supporto necessario?

O non piuttosto un’accurata scrematura delle vocazioni, prima e durante i seminari, con un sano e sapiente realismo, perché i numeri non devono mai essere un obiettivo?

Certo, le opere. Ma un prete non deve essere considerato uno che copre tutti i buchi, nelle parrocchie, nelle attività, nelle missioni.

La messe è molta e gli operai sono pochi. Chiediamo al Signore che mandi gli operai per la sua messe, non per la nostra. Ricordando che gli operai siamo tutti, non solo i sacerdoti.

Quanto al celibato, sarebbe terribile appoggiare un uomo fragile a una donna, sperando di risolvere i suoi problemi. Ci sono già tanti matrimoni infelici.

La scelta del suicidio di un giovane sacerdote non deve avere facili risposte risolutive. Lasciamo che bruci, per insegnarci a voler più bene ai nostri preti, a non mollarli se non ne abbiamo più bisogno.

Che bruci nel cuore dei pastori della Chiesa: perché non dimentichino di essere padri, di figli, non di funzionari; figli che vanno confermati sempre, con la direzione spirituale, la fraternità, la conoscenza profonda, perché a ciascuno siano affidati compiti proporzionati ai loro talenti, alle loro forze.

E il primo compito non è “saper fare”, ma essere testimoni della grazia ricevuta.

(Foto in alto: iStock)


In collaborazione con Credere
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