PHOTO


Quaranta anni fa, il 23 settembre 1985, Giancarlo Siani, giovane collaboratore della redazione di in via Cosenza n. 13, a Castellammare di Stabia del quotidiano Il Mattino di Napoli, fu ucciso con dieci colpi di pistola sotto l’abitazione nel quartiere Vomero di Napoli in cui viveva con i genitori e il fratello. Aveva da quattro giorni compiuto 26 anni. È stato definito l’unico giornalista ucciso dalla camorra. Ma, come racconta Pietro Perone, caporedattore del Mattino, nel libro Giancarlo Siani- Terra nemica (Edizioni San Paolo, con la prefazione del regista Marco Risi che raccontò la vicenda nel film Fortapàsc del 2009 e la post fazione del nipote di Giancarlo, Gianmario Siani.), e come emerge dal documentario Quaranta anni senza Giancarlo Siani in onda stasera su Rai 3, scritto dallo stesso Perone insieme con Filippo Soldi, regista e sceneggiatore già vincitore di un Nastro d’Argento e di un Globo d’Oro e finalista al David di Donatello, che ne firma anche la regia, Quello di Siani fu un delitto di Mafia, perché la famiglia camorrista dei Nuvoletta, su cui il giovane cronista stava indagando con i suoi articoli, era affiliata a Cosa nostra, che invece più volte aveva messo a tacere giornalisti che si erano avvicinati a verità scomode.
«Fui assunto al Mattino nel 1990», spiega Perone, «a condizione che andassi nella redazione di Castellammare di Stabia, quella per cui lavorava Siani, perché nessuno ci voleva andare, avevano tutti paura. per anni non ci fu nessuna verità processuale, la tesi più accreditata fu che si fosse trattato un delitto di "corna". Quando, otto anni dopo l’omicidio, vennero riaperte le indagini grazie alle rivelazioni del pentito Salvatore Migliorino, cominciai a seguire la vicenda processuale, insieme ad altri giovani colleghi e agli inquitenti, il cosidetto "pool Siani". Dopo il processo che condannò mandanti ed esecutori, decidemmo in redazione di non parlarne più per non speculare sulla sua morte. Con gli anni mi sono però reso conto che in molti alteravano i fatti infangandone la memoria. Così, a distanza di anni, ho deciso di ricostruire tutta la vicenda rivelando particolari inediti e mettendo anche in luce come alcuni suoi colleghi dell’epoca furono complici dei depistaggi. Inoltre quello che la verità processuale non ha mai appurato è come quell’omicidio fosse figlio dei legami della criminalità organizzata con il mondo politico e imprenditoriale».


Il documentario si avvale della partecipazione straordinaria di Toni Servillo, che presta la sua voce a Giancarlo Siani leggendo alcuni articoli agli studenti del liceo Giovan Battista Vico di Napoli, la scuola frequentata da Siani.
Attraverso testimonianze di chi lo ha conosciuto e del pool che ne ha onorato la memoria, i materiali d’archivio e le preziose ricostruzioni grafiche a cui ha prestato la matita l’illustratore Giancarlo Caracuzzo, il documentario porta in primo piano la storia di un ragazzo che con lucidità e passione ha saputo raccontare la penetrazione della criminalità organizzata nella società e che per questo è stato messo a tacere. Un racconto intenso e necessario, per ricordare Giancarlo Siani non solo come vittima di camorra, ma come simbolo di un giornalismo libero e d’impegno civile.


Cronaca di un agguato
Per concessione dell'editore pubblichiamo uno stralcio del libro Giancarlo Siani. Terra nemica (San Paolo), di Pietro Perone, in cui l'autore ricostruisce l'omicidio e i motivi che portarono la criminalità organizzata a emettera questa sentenza di morte
Mancano una decina di minuti alle ore ventidue del 23 settembre 1985, fa ancora abbastanza caldo, scampolo d’estate a cui i napoletani sono abituati. Finestre lasciate aperte, giungono in strada i suoni metallici dei televisori accesi in salotto o in cucina: Raiuno trasmette un film, come avviene ogni lunedì. Quella sera va in onda Il vento e il leone, tra i protagonisti Sean Connery: furiose galoppate per rapire una ricca donna americana a Tangeri, liberata dai marine inviati in Marocco dal presidente Roosevelt. Il frastuono della battaglia si miscela al brusio che arriva da piazza Leonardo, nel quartiere Vomero, a un centinaio di metri di distanza da via Romaniello, strada senza uscita dove sta per consumarsi un delitto. Decine di ragazzi trascorrono la serata parlando tra loro appoggiati alle vetture in sosta. Due uomini, jeans e giubbotti scuri, attendono la “preda”. Sono lì da circa due ore, sicuri che prima o poi l’obiettivo designato comparirà alla guida di un’auto che ai loro occhi appare come un giocattolo. Si sono appostati nei pressi dello stabile in cui un giornalista, Giancarlo Siani, vive con i genitori e il fratello. Sanno che parcheggerà nei paraggi, il primo “buco” lasciato libero. Loro, “i signori della morte”, sono pronti a premere il grilletto, incuranti degli schizzi di sangue, delle urla di terrore di chi assisterà all’esecuzione. Indifferenti per una vita che fugge via. Un colpo, un altro, e poi un altro. Un altro ancora.
«Fuja!»
Sette proiettili penetrano nel cranio della vittima, altri all’altezza della nuca. Colpiscono la scapola, entrano in un braccio. I due “guaglioni” impugnano entrambi pistole calibro 7,65, differiscono soltanto i modelli. La morte sopraggiunge quasi immediatamente: «Determinata da gravissime lesioni cranio-meningi-cerebrali, associate a ferite polmonari e a emorragia interna».
Quattro giorni prima che il corpo finisca disteso su un lettino del reparto di anatomia del Secondo Policlinico, Giancarlo ha festeggiato il suo ventiseiesimo compleanno. Occhiali tondi, sorridente, i colletti delle camicie che fuoriescono dai maglioni: il suo volto è prima finito sui giornali, in televisione, poi è stato dipinto sulle facciate degli edifici, murales alla memoria di un martirio laico. C’è una sua foto con metà viso imbrattato di vernice 1 Referto prof. Pietro Zangani, 24 settembre 1985. e il simbolo della pace disegnato su una guancia, pubblicata migliaia e migliaia di volte, in bianco e nero e a colori, modificata, poi elaborata, tagliata, trasformata dai computer in uno schizzo o nei tasselli di un puzzle. La sua auto, di un poco gradevole verde bottiglia, per carrozzeria pannelli di plastica e con il tettuccio di tela, è da decenni un simbolo di chi lotta contro le mafie, esposta prima in un museo e ora in una dimora ottocentesca, Villa Bruno, a San Giorgio a Cremano. È una Mehari, dal nome della razza di dromedari della regione del Mahra in grado di sopravvivere senza bere fino a otto giorni, il contrario di quel giovane uomo che alla sete di verità non è riuscito a resistere neanche un minuto nel corso della sua breve vita....
Giancarlo non era solo un corrispondente, come è stato considerato, da una delle tante città maledette della provincia napoletana, Torre Annunziata, ma colui che primo fra tutti aveva compreso quanto i poteri criminali fossero parte integrante delle articolazioni dello Stato, come poi decine di inchieste della magistratura hanno affermato con chiarezza.
Siani non era un cronista che raccoglie documenti a casaccio, come accade agli inizi del mestiere, carte su cui non avrebbe forse mai scritto una riga ma era in procinto di firmare un’inchiesta che lo avrebbe distinto in una categoria spesso “distratta”, il “botto” che può valere un’assunzione, a Il Mattino o altrove….



