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“Lavorano al fresco”, nel vero senso della parola, Francesco e Maurizio, detenuti del carcere “Due Palazzi” di Padova. Sono i gelatai artigiani che, sotto la sapiente guida dei maestri Alessandro e Lorenzo, realizzano l’ultimo nato di Officina Giotto: il gelato, 16 gusti di base e altri a rotazione, secondo la stagionalità.
Grazie a loro, ha potuto aprire, nella centralissima via Eremitani 1, a Padova, “La Gelateria del Carcere”, che fa parte delle attività alimentari gestite dal Consorzio sociale Giotto, che dal 2001 offre lavoro ai detenuti.
La gelateria si va ad affiancare alle attività consolidate: la pasticceria – dove lavorano 25 artigiani seguiti da cinque maestri pasticceri – la fabbricazione di biciclette, l’assemblaggio delle valigie, la realizzazione delle chiavette digitali per la firma elettronica e i call center, dove sono impiegati 60 detenuti. Quest’ultimo è uno dei lavori più ambiti, perché mette in relazione con l’esterno.
Un piccolo distretto artigianale dentro il carcere, che complessivamente dà lavoro a 140 detenuti sui 700 totali. «Il nostro obiettivo è la massima qualità». dice il presidente di Officina Giotto, Nicola Boscoletto. «I prodotti non devono essere apprezzati, perché fatti in carcere, ma perché sono così buoni da misurarsi con i migliori; noi ricerchiamo l’eccellenza. Il sociale non dev'essere una scusa per fare le cose meno bene degli altri».
- Boscoletto, perché proprio il gelato?
«Perché, essendo noi ormai famosi per colombe e panettoni, che sono produzioni con una stagionalità molto pronunciata, ci ritroviamo con picchi di lavoro in alcuni momenti dell'anno e meno in altri. Nel 2014, abbiamo prodotto circa 84 mila panettoni e 15 mila colombe, 200 chili di pasticceria fresca la settimana, 1.500 brioche al giorno. Il gelato è un’idea coerente con il resto della nostra produzione. A Natale facciamo i panettoni, a Pasqua, le colombe, a giugno i dolci dedicati a sant'Antonio, restava da coprire l’estate. Ed ecco i gelati, naturali, senza additivi, prodotti freschi ogni mattina in carcere e poi portati alla gelateria, dove lavora personale esterno. Ci siamo rivolti alla Coldiretti per conoscere giovani imprenditori e rifornirci da loro per le materie prime. Così la rinascita che questi prodotti comporta per chi li produce, aiuta anche la rinascita di ragazzi che scommettono ancora sull'agricoltura, sul territorio e sulle produzioni di qualità».


Un lavoro vero riduce la recidiva
La gelateria è aperta il lunedì dalle 15 alle 23; dal martedì al giovedì, dalle 10.30 alle 23; il venerdì e sabato, dalle 10.30 alle 24.
Intanto, lunedì 17 agosto, gelati e dolci sono al Padiglione Coldiretti “No Farmers No Party”, all'Expo di Milano. Una vetrina internazionale per prodotti che nascono con la vocazione a varcare i confini, non solo per gli ordini che arrivano da tutto il mondo e per i 200 punti vendita che propongono le delizie di pasticceria Giotto, ma anche per le numerose realtà sociali e imprenditoriali che prendono esempio dal consorzio padovano per realizzare imprese analoghe: dal Venezuela al Portogallo, da Chicago al Brasile.
In Italia solo 800 su 54 mila detenuti lavorano in carcere con cooperative o imprese esterne, e altri 1.300 circa lavorano fuori dal carcere. Ovvero solo 2.000 persone sul totale hanno un lavoro vero.
«La recidiva media in Italia è del 70 per cento. E probabilmente si tratta di una sottostima, perché fa riferimento a quanti la polizia riesce a riprendere. Pertanto, quasi in tutti i casi, chi esce dal carcere, torna a delinquere», riprende Boscoletto. «Per le persone che hanno la possibilità di lavorare durante la carcerazione con realtà come la nostra e proseguono poi con l’inserimento lavorativo in misura alternativa, la recidiva si abbatte del 2/3 per cento. Chi esce ha una professionalità da spendere, ha fatto esperienza di che cos'è un lavoro vero. Teniamo presente che moltissimi fra i detenuti non hanno mai lavorato in vita loro; chi arriva da noi spesso non ha competenze, a volte non sa neppure leggere e scrivere, perciò dobbiamo agire sulla motivazione e dobbiamo far forza sulle competenze residue della persona per sviluppare tutto il resto. Abbiamo elaborato una metodologia specifica, assieme al nostro ufficio sociale. Far lavorare una persona in carcere non è come far lavorare uno fuori».


"Il lavoro è ciò che dà dignità alla persona, come dice papa Francesco"
- “Mia figlia fa l’università e la mantengo io”, mi ha detto un detenuto. E un altro: “Il giorno più brutto della settimana è la domenica; quando lavoro, mi sento meglio”. L’opportunità di lavorare accresce l’autostima?
«Certo, perché permette di invertire la situazione, all’inizio sei totalmente dipendente dalla famiglia, e magari te ne vergogni, dopo torni a essere autonomo e a contribuire, se non con la presenza, almeno economicamente. Chi svolge un lavoro qualificato, prende sui 900-1.000 euro al mese, e riesce a mandarne a casa 400-500. Questo permette una diversa valutazione del proprio passato e aiuta a migliorare il rapporto con la famiglia. Inoltre, se dentro al carcere non hai un minimo di indipendenza economica, per qualsiasi necessità devi ricorrere a qualche altro detenuto e ne diventi schiavo».
- Come scegliete i lavoratori?
«Lavorare è l'aspirazione di tutti, fa sentire un po' privilegiati. La selezione spetta alla Direzione del carcere e nasce da un concorso di valutazioni; sono loro che ci propongono chi assumere. Il fatto di avere più lavorazioni, ci permette di individuare il lavoro più consono a ogni detenuto, pertanto lo straniero, che non sa bene la lingua, non lo mandiamo al call center, lo impieghiamo piuttosto alle valigie o in cucina. Ma, al di là della tipologia, il lavoro è ciò che dà dignità alla persona, come dice papa Francesco. Noi abbiamo constatato che il lavoro in carcere permette a tanti di rialzare la testa e di riscoprire il proprio valore, sentendosi nuovamente mariti, padri, figli, fratelli».



