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mercoledì 14 maggio 2025
 
 

"Io, senegalese, vi racconto Senghor in italiano"

11/01/2014  Nella raccolta "Il cantore della negritudine" lo scrittore e poeta Cheikh Tidiane Gaye, da molti anni residente in Italia, ha tradotto una selezione di poesie del grande intellettuale e primo presidente del Senegal.

Liberare l'Africa e i popoli africani dal complesso di inferiorità nei confronti dell'Occidente e delle civiltà colonizzatrici, restituendo all'identità nera orgoglio e dignità. Questa è stata l'idea alla base del movimento della Negritudine e l'idea di uno dei suoi fondatori, Léopold Sédar Senghor. Politico in Francia, poi primo presidente del Senegal (cattolico, in un Paese a stragrande maggioranza musulmano) dal 1960 al 1980,  scrittore prolifico e coltissimo, insegnante,  filosofo, Senghor ha lasciato una produzione poetica vastissima in numerose raccolte (tradotto in varie lingue, compreso l'italiano) ed è riconosciuto come l'espressione più alta e rappresentativa della letteratura africana in lingua francese. Nella lingua dei colonizzatori, appunto, perché la grande forza di Senghor è stata proprio quella di usare gli strumenti comunicativi della colonizzazione stessa per trasmettere il suo pensiero e le sue idee filosofiche e antropologiche.

Per la prima volta il grande poeta della Negritudine è stato tradotto in Italia da un poeta africano, originario  del suo stesso Paese, il Senegal, Cheikh Tidiane Gaye (www.cheikhtidianegaye.com). Nato a Thiès nel 1972, Gaye vive in Italia ormai da molti anni, ha preso la cittadinanza italiana. Ha pubblicato numerose opere in poesia e in prosa: la più recente è il romanzo Prendi quello che vuoi, ma lasciami la mia pelle nera (pubblicato da Jaca Book nel 2013). Nella raccolta Il cantore della negritudine (Edizioni Dell'arco), Gaye ha scelto una serie di liriche senghoriane, rappresentantive del pensiero e della vita del poeta. Un lavoro di traduzione lungo, intenso e molto impegnativo, perché per Gaye, di formazione wolof, si è trattato di trasferire i testi da un idioma - il francese - che non è la sua lingua madre a un altro idioma - l'italiano - che lui ha appreso da adulto, nella terra d'adozione, dove ha scelto di vivere.   

Con quale criterio hai operato la scelta delle poesie da tradurre?

Prima di tutto, ho scelto delle liriche famosissime,  che i senegalesi conoscono a memoria e che non possono non essere inserite in un'antologia. In secondo luogo, le ho selezionate sulla base della storia di Senghor: gli eventi salienti della sua vita, il tema della colonizzazione e della decolonizzazione, del razzismo, dell'identità nera. Non ho fatto una scelta sulla base dei miei gusti personali, anche se in piccola parte ha influito anche la mia sensibilità di poeta.

Il lavoro di traduzione è stato molto impegnativo. Quale è stata la difficoltà maggiore che hai incontrato?
Mi è costato un lavoro enorme. Senghor scriveva tutto in francese e la sfida per me è stata quella di conservare la vena poetica, lo stile del verso, la musicalità. Questa è stata la vera difficoltà. Senghor usava delle figure retoriche molto particolari, come l'enjambement e la paronomasia, una sintassi molto raffinata e complessa. Traduzione vuol dire sempre "tradimento". Ma io ho cercato di tradurre nel modo più fedele possibile, rispettando in modo preciso, laddove possibile, il ritmo e l'andamento delle strofe e dei versi, la poeticità, addirittura la posizione delle virgole. Il conteggio delle sillabe no, perché non era possibile.  Senghor usava molti neologismi, parole inventate che non esistono nel vocabolario francese. Ma questi non mi hanno creato problemi perché, essendo della sua stessa cultura, già conoscevo il loro significato.  Senghor è stato il primo nero della storia a entrare nell'Académie française: conosceva e parlava la lingua molto meglio di tanti francesi, aveva una padronanza linguistica incredibile, insegnò latino e greco, pur essendo africano. Il suo francese fortemente accademico è difficile per me - che sono francofono - e anche per i francesi. Per me è stata una grande prova. 

Per un poeta come te non c'era la tentazione di far prevalere la tua personale vena lirica, nel tradurre un altro scrittore?
Senghor è l'accademico che dobbiamo custodire. Non ho voluto in alcun modo modificare la sua poeticità. Per me è stata una missione. Il mio traguardo era farlo conoscere al popolo italiano.

Pensi che in Italia Senghor sia poco conosciuto?
La generazione prima della guerra lo conosce, ma le nuove generazioni ignorano il cantore della negritudine. Non sanno nulla delle sue poesie, del suo pensiero, e anche dei suoi saggi: bisogna ricordare che Senghor ha lasciato anche molti scritti fondamentali sul tema dell'interculturalità. Per me era giunto il momento di risvegliare le coscienze sulla sua opera.

Quale valore e significato può avere oggi per noi italiani questo grande intellettuale senegalese?

Senghor è stato uno dei grandi fondatori della cultura dell'universalità, fondata sulla simbiosi delle culture, di quella mondializzazione che oggi stiamo vivendo:  lui ne ha elaborato il concetto filosofico. Il movimento della Negritudine ha voluto ridare dignità a tutti coloro che affondano le loro origini in Africa. Ha ridato orgoglio al continente e alla cultura africana.

Eppure, non pensi che ancora oggi l'Africa sia lontana da una reale autonomia politica, economica e culturale?
Purtroppo è vero che stiamo ancora attraversando una fase di neocolonialismo, con ingerenze politiche ed economiche da parte dei Paesi stranieri. Le guerre sono diminuite, ma l'Africa non è ancora autonoma.  Gli Stati africani non riescono a risolvere da soli i loro problemi.

Senghor non è stato solo un intellettuale, ma anche il primo presidente del Senegal...
E' stato un modello anche politico: voleva creare un socialismo all'africana, partendo dalle nostre radici antropologiche. Ha avuto anche il merito di dimostrare la differenza ontologica tra africani e occidentali. Senghor diceva che la passione è nera, la ragione è ellenica.  Molti l'hanno criticato per questo, ma lui intendeva dire che la ragione nera è intuitiva mentre quella occidentale è discorsiva, ma pur sempre ragione. L'uso della parola tra africani e occidentali è molto diversa. Così come anche la concezione dell'arte: l'artista africano non crea una scultura per lasciare il suo nome ai posteri; da noi, tradizionalmente, l'artista ha avuto sempre una funzione sociale, politica e religiosa. Tanti senegalesi riconoscono le sue doti letterarie, ma non lo accettano politicamente. Eppure, è stato il fondatore della nostra patria e, cosa molto importante, dopo vent'anni ha lasciato il potere per sua volontà, cosa molto rara in Africa.

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