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martedì 08 ottobre 2024
 
 

Tremonti: l'Italia tiene perché...

29/06/2011  Il ministro dell'Economia spiega le ragioni delle sue scelte. La politica del rigore, la famiglia, la questione meridionale.

«Lo sento dire spesso: avete “tenuto in ordine i conti pubblici”. Grazie. In realtà noi abbiamo fatto di più: abbiamo “tenuto il bilancio dello Stato”. Come scriveva Quintino Sella, il bilancio dello Stato “riflette e contiene le virtù e i vizi di un popolo”. Non è stato dunque solo un diligente, pulito esercizio di numerologia o di ragioneria. In particolare, tenere il bilancio dello Stato è stato proteggere il risparmio delle famiglie, risparmio che è investito nel bilancio dello Stato – nei bot, nei cct – e che nel bilancio dello Stato trova la sua garanzia di ultima istanza. E’ stato mantenere la coesione sociale, con gli ammortizzatori sociali. E’ stato assicurare le pensioni, la sanità, le medicine. E’ stato infine tenere aperto il canale di finanziamento alle imprese. Lo abbiamo fatto dentro la crisi più grave dopo il 1929, a fronte dello straordinario corrispondente calo della produzione industriale e quindi del gettito fiscale. Il differenziale è stato pagato in deficit, ma abbiamo tenuto sotto controllo anche questo. Posso dire: fare cose ordinarie in tempi non ordinari è, in sé, qualcosa di straordinario. Almeno, io la vedo così. E’ vero, e lo so bene, che ci sono in Italia persone e famiglie, aziende e settori in sofferenza, in crisi. Lo so bene. Però nel complesso l’Italia ha retto. Ed ha retto per la virtù delle persone e delle famiglie, dei lavoratori e degli imprenditori. Lo so bene, non solo per la politica del Governo».

     Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti difende con orgoglio il proprio operato e quello del Governo. Lamenta, semmai, una «visione convenzionale della politica economica e dei fenomeni globali in corso». Visione in cui, spiega con la sua nota cortesia e con la sua altrettanto nota schiettezza, è caduta anche Famiglia Cristiana. Alla vigilia di decisioni importanti per il Governo e soprattutto per il Paese, ecco l’occasione per un dialogo sulla realtà nazionale e internazionale e sulle “relazioni pericolose” tra l’una e l’altra.

    

     «Per comprendere la realtà che stiamo vivendo», premette il ministro Tremonti, «dobbiamo partire dallo spirito del tempo che viviamo, ed è un tempo straordinario. Sono di colpo mutate la struttura e la velocità del mondo. Sono abbastanza vecchio da ricordare il vecchio G7 e abbastanza “giovane” da vedere il nuovo G20. Dietro queste sigle c’è una fortissima discontinuità storica, che ci aiuta a capire come sta cambiando il mondo”.

- Una rottura, quindi. Di che cosa? In che cosa?

     «Fino a pochissimi anni fa il G7 era il principio e la fine di tutto, per la verità una cosa un po’ misteriosa ma era la “cosa” politica più importante del mondo. Un “corpus” sovranazionale unificato da tre “codici”: da un codice linguistico (l’inglese), da un codice monetario (il dollaro) e da un codice politico (la democrazia occidentale). Il G7 controllava, controllava nel vero senso della parola, l’80% della ricchezza del mondo e lo faceva nell’interesse e per conto di più o meno 700-800 milioni di persone fortunate. Questo mondo, un mondo così organizzato, è durato dal 1975, quando appunto fu inventato il G7, fino alla crisi del 2008. Se stavi dalla parte giusta del mondo, in Occidente, stavi in un mondo caratterizzato da un altissimo grado di stabilità e di felicità. Un mondo che ancora godeva della rendita coloniale, una rendita durata ben oltre il tempo delle colonie. Un mondo in cui l’Occidente piazzava i suoi titoli e i suoi prodotti quando voleva, a chi voleva, a quanto voleva».

- Poi è arrivato il momento in cui questo sistema non ha più tenuto…

     «La crisi del 2008 ha marcato la fine di quel del mondo. Il G7, la crisi è stato probabilmente capace di causarla, anche perché ha accelerato la globalizzazione, ma non è stato capace di prevederla, di prevenirla, di gestirla. E’ per questo che il G7 è stato sostituito dal G20, che all’inizio aveva la missione di affrontare la crisi e poi di fissare i principi di governo del nuovo mondo globale. La differenza tra G7 e G20 non è solo quantitativa, caratterizzata dal passaggio da 7 a 20, nel numero degli Stati partecipanti. Con l’ingresso delle nuove potenze mondiali, dalla Cina all’India, dalla Russia al Brasile, la differenza è più profonda, è qualitativa, è politica. Il G20 non è più unificato dai vecchi codici del G7. La lingua non è più solo l’inglese: al G20 molti parlano infatti con orgoglio la propria lingua, per marcare la loro identità. La moneta non è più solo il dollaro, perché ci sono anche l’Euro e la moneta della Cina. Infine il vecchio unitario codice politico si è rotto, perché intorno al tavolo del G20 non c’è solo la democrazia occidentale, ma anche altri sistemi politici, che davvero non sono linearmente conformi alla democrazia occidentale».

- Se il G7 controllava l’80% della ricchezza planetaria, il G20 a quale percentuale arriva?

     «La percentuale è la stessa, più o meno l’80%, ma la differenza è fondamentale: mentre il G7 controllava, il G20 solo “rappresenta” l’80% della ricchezza mondiale. La rappresenta, ma non la controlla più. Siamo entrati in un mondo totalmente nuovo. Se posso fare un paragone, il G7 era come un vecchio “mainframe computer”: rigido, verticale, geometrico, monoblocco. Il G20 è invece come Internet: flessibile, orizzontale, interattivo, federale. Uno potrebbe dire: ok, il vecchio mondo era quello e il nuovo mondo è questo, prendiamone atto. Ma la storia corre a velocità folle e in due anni anche il G20 è diventato obsoleto, pur essendo stato “inventato” solo nel 2005».

- E perché?

     «Perché l’idea iniziale era – ripeto – quella di fare del G20 la nuova struttura di governo del mondo. Ma è stata un’idea nata già vecchia. Il G20 rappresenta infatti economicamente l’80% della ricchezza del mondo, ma non è un “corpus” politico che può governare il mondo. Nel G20, pur estesissimo, non c’è comunque una quota enorme del mondo. Fuori dal G20 c’è infatti tutta l’Africa, Sudafrica a parte. Fuori c’è il mondo arabo, Arabia Saudita a parte. La prova che in soli due anni questo organismo è diventato obsoleto ce l’hai se guardi le “rivoluzioni dei gelsomini” iniziate a partire da gennaio nel nord Africa».

     - Il G20 non ha saputo prevederle. Ma a ben vedere non ha saputo prevederle nessuno. 

     “Quello che cerco di dire è che nel mondo c’è stata una crisi, un cambio di paradigma, un’accelerazione. Non è un ciclo economico tradizionale, per cui poi si torna come prima. Siamo passati da meno di un miliardo a cinque miliardi di persone, che sono entrate nell’economia globale. Mentre un miliardo resta ancora fuori. Cinque miliardi di persone immesse di colpo in un mercato globale difficilissimo da amministrare, perché caratterizzato da enormi anarchici squilibri. E’ così che siamo passati da un mondo che conoscevamo ad un mondo che ancora non conosciamo. In più, ripeto, stiamo assistendo a una rivoluzione geopolitica che dall’Atlantico arriverà all’Asia, agganciando un pezzo di Africa».

- Lei pensa davvero che le rivoluzioni del Nord Africa si estenderanno a catena verso Oriente, fino all’Estremo Oriente?

     “Se uno guarda il catalogo dei fattori di crisi, sembra inevitabile. La cosiddetta “primavera del Maghreb” è stata innescata dalla speculazione sul cibo. A proposito: nel 2008 avevo chiesto al Fondo Monetario se c’erano sintomi di speculazione finanziaria sul cibo. Mi arrivò un rapportone del Fondo, un volume alto così con la scientifica dimostrazione che la speculazione non esisteva, che era solo il normale corso del mercato. Firmato Strauss-Khan. Ma la crisi alimentare, con il giovane ambulante tunisino che si dà fuoco perché non riesce a vendere la sua povera merce, è stata solo la scintilla della rivolta. Alla base ci sono masse di giovani istruiti, donne in cerca di emancipazione, una violenta reazione contro regimi oligarchici o cleptocratici. C’è poi il ruolo dei media, che è enorme. Se uno va a vedere le curve di utilizzo di Google, vede che a ridosso dei fatti politici c’è una fibrillazione nei contatti. Alla base, più forte di tutto, c’è infine la reazione contro eccessi di disuguaglianza sociale ed economica. Ecco perché non credo che questa rivoluzione sarà limitata al Nord Africa ma arriverà fino in Asia”.

- Quali conseguenze provocherà questa rivoluzione sul piano economico, sociale e politico?

     «Una cascata di rischi concreti. Un esempio banale: c’era un milione di turisti italiani che ogni anno andava in Egitto. Supponiamo che il flusso turistico vada giù. Quante famiglie egiziane che vivono di turismo ne risentiranno? Il calo del turismo può tradursi in una  spinta verso la disperazione e verso l’integralismo. Pensiamo ai Fondi sovrani arabi: che succede se ritirano i depositi? Infine si rischia una delusione traumatica. La democrazia non è una piazza piena di speranza o di rabbia. E’ una cosa molto più complessa. Appena quaranta anni fa in Europa la democrazia non era la regola, ma l’eccezione! La democrazia si costruisce lentamente “in loco”, non è una commodity che si esporta.
La democrazia non è McDonald’s».

- E in Europa, tutto questo cambiamento, che cosa provoca o può provocare?

     «A tutto quanto detto finora dobbiamo aggiungere la opposta deriva estremista in Europa. Sui binari della paura, della paura per il diverso e per il nuovo, c’è in Europa e soprattutto nel Nord Europa una spinta terribile verso l’estremo delle estreme destre. E questo rischia di minare la democrazia. Un altro evento che cambia il corso della storia è Fukushima. Una catastrofe nel senso greco, non un incidente, ma un cambio di paradigma. Questo è lo scenario in cui ci muoviamo nell’anno di grazia 2011».

     - In questo scenario come interpreta il suo ruolo-guida nella politica economica nazionale?

     «Lo ripeto: nell’età in cui viviamo anche quello che deve fare un Governo in Europa non risponde più ai criteri tradizionali».

- Perché, dunque, il sistema Italia ha tenuto?

     «Perché ha tenuto il bilancio dello Stato l’ho detto, ma non solo. L’Italia ha retto perché abbiamo ottomila Comuni, non solo grandi metropoli circondate da anelli infernali di periferia. Abbiamo una struttura più umana e geograficamente più capillare. Abbiamo un sistema sociale basato su due pilastri: l’Inps, ma anche la famiglia. E pensare che il bilancio pubblico tenesse, con dentro il terzo debito pubblico del mondo, nella crisi più grave dal Dopoguerra, senza gravi tensioni sociali, è stato un risultato incredibile, che all’estero sorprende tutti. Fuori dai confini qualcuno pensava che i primi a saltare saremmo stati noi. E invece no. E certo, oggi nel pieno di  una crisi che continua partendo dalla Grecia, dobbiamo continuare. Non abbiamo alternative».

- E’ fiducioso per il futuro?

     «Mi preoccupa soprattutto il divario tra Nord e Sud. La grande questione italiana resta ancora la questione meridionale. L’Italia è un Paese duale, ma non deve e non può essere un Paese diviso. Non è solo questione di soldi, ma di capacità e civiltà di governo. I fondi europei (provvisti dall’Italia a Bruxelles e da questa ristornati all’Italia) hanno un volume enorme. Ma ancora più enorme è appunto il fatto che non vengono spesi. O poco. E che il resto va poi perso, a vantaggio di altri Paesi».

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