Quel grido, aurora della risurrezione
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Marco 4,35-41
Scoppia una tempesta sul Lago di Tiberiade e la barca dove si trovava Gesù con alcuni suoi discepoli inizia a imbarcare acqua e concreta diventa la possibilità che affondi. In questo contesto Gesù se ne stava a poppa e dormiva. Un fatto curioso, perché in quelle barche da lago, lunghe pochi metri, non doveva essere affatto semplice dormire mentre si scatena un temporale e le onde invadono l’imbarcazione, neanche per una persona molto stanca al termine di una giornata molto intesa. Eppure dorme. E i discepoli lo svegliano, gridando: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?». Nella Bibbia troviamo spesso un lamento, un grido lanciato dal popolo per svegliare Dio. Anche qui nel Vangelo ritroviamo gli uomini che destano Dio, e lui che si lascia svegliare. Finché siamo capaci di lamentarci con Dio perché dorme durante le nostre tempeste, la fede è viva. Perdiamo la fede quando smettiamo di rimproverare Dio che non si sveglia, e ci convinciamo che non stia dormendo ma non ci sia più. È la fine del grido che segna l’inizio dell’ateismo muto. Finché gridiamo e protestiamo perché la vita adulta ci appare tradimento delle promesse del primo incontro della giovinezza, siamo ancora fedeli alla prima vocazione e alla prima fede. Il libro dell’Esodo si apre con un grido del popolo per svegliare Dio che sembra averlo dimenticato schiavo in terra straniera (Esodo 2,23). Molte preghiere grandi prendono la forma del grido. Nella Bibbia gridare è possibile, lecito, consigliato, è un linguaggio che Dio sembra capire. Urlando possiamo ricordare a Dio il suo “mestiere” di liberatore di schiavi e di poveri.
SALVARE IL RAPPORTO. Ogni volta che svegliamo Dio gli ricordiamo chi è. Ma questo vale anche per i rapporti umani, nei rapporti tra di noi, soprattutto quelli decisivi e primari. In ogni rapporto in pericolo e che si vuole salvare, la prima preghiera non è «ricordati di me», ma «ricordati di te», cioè: ricordati chi sei tu. Rapporto con Dio, rapporti con gli uomini e le donne. Quando tutto affonda e tu non rispondi, per salvare il rapporto con te devo chiamarti sperando che tu non sia morto ma che tu stia solo dormendo. E chiamandoti ti ricordo di te, chi sei veramente, e una volta che ti risvegli a te stesso magari puoi anche ricordarti di me. I rapporti in crisi si salvano così, con un esercizio profondo della memoria, quando riaprendo gli occhi su me stesso riesco a rivedere anche te, e poi anche noi. Ma prima devo convincermi, o almeno sperare, che tu non sia scomparso ma che tu stia solo dormendo, e quindi che il mio grido può avere un senso. Quando si perde il senso del grido e iniziamo a pensare di star gridando soltanto al vento o a un cielo vuoto, il rapporto – con Dio e tra noi – muore non perché l’altro non si sveglia, ma perché io ho smesso di credere che tu non rispondi solo perché stai dormendo. Credere che tu stia dormendo è l’aurora della resurrezione, è l’inizio di una nuova vita: «Si destò, minacciò il vento e disse al mare: “Taci, calmati!”. Il vento cessò e ci fu grande bonaccia».