Egregio don Stefano, ormai oltre due anni fa su FC 25/2022 ho letto con vivo interesse l’intervento di Giuseppe Anzani sul suicidio assistito. Il suicidio, assistito o no, è un gesto profondamente innaturale, mostruoso nella sua progettazione ed esecuzione. E, tuttavia, dobbiamo onestamente interrogarci al riguardo: nell’articolo citato si parla di “un nostro insuffi ciente conforto alla vita”, di “analgesici più potenti della morfi na”, della cura come “un volto che non si distoglie ma si associa”.

Tutti concetti belli e veri. Le cure palliative dovrebbero essere facilitate e ogni paziente dovrebbe potervi avere accesso in modo facile e sicuro ma, a monte, dovrebbe esserci una assistenza assicurata a chiunque, anche alle persone sole che, invece, non hanno in molti casi né la possibilità di intraprendere cure massacranti, come la chemioterapia pesante che implica in molti casi la necessità di una assistenza costante, né quella di essere assistite in caso di disabilità grave, a meno che non siano ricchissime.

La legge non distingue, in relazione agli assegni di invalidità, fra persone completamente sole e chi solo non è, a meno che non si arrivi a un cento per cento di invalidità stabile. Perché, allora, una persona sola non dovrebbe guardare alla morte infitta senza dolore come a una rassicurazione, di cui non avvalersi obbligatoriamente peraltro? Non è solo una questione di dolore fisico, ci sono mille altre condizioni che portano il malato terminale all’esasperazione e alla disperazione.

Mi chiedo: dov’è il volto che si associa, dov’è il briciolo di amore di cui parla Anzani, dov’è la vocazione umana della medicina? Personalmente non scorgo nulla del genere nell’intubare una persona e lasciarla in un letto per vent’anni, soprattutto se il malato non ce la fa più. Vedo invece una mancata accettazione dell’evento morte, come se esso non fosse parte della vita, come se esulasse dalla natura stessa delle cose. E lo dico da persona convinta della sacralità dell’esistenza. Lasciar andare, non uccidere. Lasciar andare senza infl iggere altro dolore a chi ne fa richiesta.

UNA LETTRICE


Cara amica, la morte su richiesta resta una sfida alla civiltà di cui siamo tutti parte. L’editoriale di Giuseppe Anzani riguardava la vicenda di Mario, il 44enne marchigiano rimasto tetraplegico dopo un incidente stradale, che aveva chiesto con una battaglia legale durata dodici anni il suicidio assistito, alla fine ottenuto il 17 giugno del 2022. Prima persona in Italia che ha battuto con successo questa strada, accedendo alla “dolce morte” attraverso un mix di sostanze letali simile a quello che si inietta ai condannati a morte negli Usa. Anzani spiegava che in Italia non esiste un “diritto al suicidio”, ma solo un’esimente, e solo a certe limitate condizioni in seguito a una sentenza della Corte costituzionale, per chi quel suicidio provoca.

Ma resta un’eccezione, il suicidio da noi non è (ancora?) legalizzato. La medicina infatti, continuava Anzani, non può per suo statuto applicare una “cura letale”, ne va della sua vocazione umana. E paragonava la vicenda di Mario con quella di Fabio Ridolfi, da 18 anni immobilizzato da tetraparesi e tenuto in vita con quei supporti vitali che la legge permette, invece, di rimuovere perché il supporto vitale richiede il consenso del fruitore.

Due casi differenti dal punto di vista giuridico, ma che, pur diversi, interrogano la nostra coscienza civile perché parlano di due nostri consociati, due “fratelli” nel nostro gergo cristiano, che hanno deciso, probabilmente per spossamento (ma chi può davvero leggere nei loro cuori?) di farla finita. Due fratelli per i quali la vita non aveva più senso. Non possiamo non sentirci parte di queste vicende.

Non possiamo non compatire quelle condizioni estreme in cui hanno dovuto vivere per incidenti o accidenti occorsi nella loro vita. Non possiamo, più in generale, non interrogarci sulle condizioni di solitudine e di precarietà economica di cui parla la nostra lettrice, che, comprendiamo, possono essere una pesante ipoteca nel non voler più andare avanti ma che rischiano di giustificare, nelle nostre coscienze e nella coscienza di un popolo, forme di “abbandono sociale”, autorizzando il suicidio come scappatoia da una situazione invivibile.

La domanda che voleva porre Anzani, mi sembra, è: dov’è la società? Dov’è la Chiesa? Dov’è ciascuno di noi? Non esistono situazioni semplici a cui dare risposte a cuor leggero. La vita, in tante sue situazioni, e la morte sono eventi drammatici, estremi. Soprattutto, ogni singola vicenda legata a malattie gravemente invalidanti e terminali è unica e irripetibile. Formulare per tutte queste situazioni asserzioni generali e astratte può apparire disumano.

Esiste, tuttavia, un diritto alla vita, non solo individualmente inteso, ma anche come “compito sociale” di ciascuno che in una società comporta, per usare il nostro gergo cristiano, un reciproco farsi carico dei pesi l’uno dell’altro (cfr. Galati 6,2).

Non sono parole facili o buoniste. La realtà, se pensiamo da cristiani, è che siamo convocati tutti, volenti o no, di fronte a tante situazioni estreme, al capezzale di quelle persone che soffrono di mali fisici e psicologici, che vivono in situazioni di povertà e abbandono sociale. Non possiamo abituarci o, peggio, appoggiare l’idea della “morte dolce” senza farci carico in prima persona ciascuno di almeno una situazione di disagio di chi ci vive accanto. Solo così costruiremo una società più umana e solidale. O, almeno, meno disumana di quella che si profila all’orizzonte.