Boschi abbattuti in Dolomiti (Foto Manfred Bortoli)
“I giorni precedenti a Vaia c’era un caldo anomalo. La sera del 29 ottobre ero sul poggiolo con mia moglie e ci si presenta una scena da film dell’orrore: buio totale, telefoni muti, pioggia a dirotto e un fortissimo vento caldo. Poi un rombo così fragoroso che pensavamo stessero crollando le case. La mattina dopo ci siamo accorti che era venuto giù tutto il bosco. Salito in Val Visdende non credevo ai miei occhi: il peggiore degli incubi era diventato realtà”. Questo il racconto di Silvano Eicher Clere, presidente del consorzio Visdende, che dal 1995 riunisce le quattro Regole del Comune di San Pietro, una delle zone dolomitiche più duramente colpite dalla tempesta. “Poi mi sono chiesto: per quale fortunata sorte quanto è capitato a tutti quegli alberi secolari dalla fibra fortissima non è accaduto per le case lì vicine e per i loro abitanti? Lei crede in qualche Dio? Io penso sia stato un miracolo”, conclude, voltando le spalle a un'enorme, cimiteriale ceppaia che, a fondovalle, ha sostituito il bosco schiantato dal vento.
E’ passato giusto un anno dalla tempesta “Vaia”, la maggior catastrofe naturale che mai abbia colpito le foreste italiane e che ha cambiato per decenni, c’è chi dice per un secolo, il panorama di parecchie aree montuose del Nordest, dalle Dolomiti all’Altopiano di Asiago, fin su in Carnia. I numeri stanno lì a dircelo: la notte tra il 29 e il 30 ottobre 2018 le raffiche violentissime di vento, fino a 200 km all’ora, hanno devastato 42mila e 800 ettari di bosco (pari, per capirci, a 70 mila campi da calcio), lasciando sul terreno 8 milioni e mezzo di metri cubi di legname, qualcosa come venti milioni di alberi schiantati o sradicati. Un’ecatombe. Per portarli via tutti servirebbero qualcosa come 283 mila camion che, messi in fila formerebbero una coda lunga oltre 2800 chilometri.
La pioggia caduta in poche ore, in quantità pari a quanta ne cade in mezzo anno, ha causato, solo in Veneto, frane, esondazioni e smottamenti che hanno distrutto mille chilometri di strade, costretto centinaia di famiglie ad evacuate, lesionando 200 abitazioni e lasciando 170 mila residenti senza energia elettrica per giorni. Si è trattato della “tempesta perfetta”, come viene definita in gergo meteorologico un evento del genere, o solo un assaggio di quanto capiterà in futuro? Difficile a dirsi. Non è possibile affermare con certezza, come ha osservato nei giorni scorsi il climatologo Filippo Giorgi, che Vaia sia il risultato del cambiamento climatico. “Ma ciò che sappiamo è che quanto accaduto ha preso forza a causa della temperatura elevata del Mediterraneo. E che ci sono ottime probabilità che in futuro si verifichino nuovi eventi climatici particolarmente violenti”.
Insomma Vaia potrebbe ripetersi. Ma potrebbe non ripetersi il “miracolo”. Un anno fa tre sono state le vittime della tempesta; ma il conto dei morti avrebbe potuto essere molto, molto più alto. Certo, ad “aiutare” il miracolo è stata la prudenza degli amministratori e dei responsabili dell’ordine pubblico in quel fine ottobre: non fosse stato dato “l’allerta rosso” con ampio anticipo e non si fossero usati in modo sistematico, per la prima volta, i social per un’emergenza meteo, chissà che tragedia dovremmo piangere oggi.
Anzi, se vogliamo, quanto scatenato dall’”apocalisse”, come ebbe a definire il disastro il giorno del suo primo sopralluogo nel Bellunese il capo della Protezione Civile nazionale, Angelo Borrelli, ha generato altri due “miracoli”: quello della solidarietà e quello della pronta rinascita di una comunità ferita. Il primo che racconta un’Italia generosa che offre braccia di volontari e denari per la ricostruzione delle zone colpite. Basti pensare che il conto corrente aperto dalla Regione Veneto ha raccolto oltre 4 milioni di euro destinati a ripristinare un luogo simbolo sfregiato da Vaia come i Serrai di Sottoguda. Il secondo che dimostra come, una volta tanto, la gestione dell’emergenza sia stata esemplare a tutti i livelli (da quello commissariale della Regione, a quello dei Comuni coinvolti fino ai singoli cantieri aperti). Un fatto che ha del miracoloso, appunto.
Ma detto questo, nuovi cicloni distruttivi si abbatteranno qui come altrove se l’uomo non cambierà atteggiamento nei confronti della natura; se nulla farà per limitare l’emissione di gas serra responsabili del surriscaldamento globale. Insomma se si continuerà ad affidarci solo alla buona sorte, ma perseverando nelle cattive abitudini, senza operare scelte sostenibili per l’ambiente nel locale, come nel globale.
Certamente, nel caso dei boschi “feriti” sarà anzitutto necessario mettere in atto quanto acquisito dall’esperienza delle scienze e tecnologie forestali nel ripristino boschivo e programmare nuove “governance” che permettano la cosiddetta “resilienza” dei territori minacciati dalle calamità naturali. Ma prima di ciò, serve la silenziosa, tenace fede che sosteneva “l’uomo che piantava gli alberi” di Jean Giono, ovvero deve realizzarsi quella “conversione ecologica”, per dirla alla Papa Francesco, che ci richiami alla cura del mondo e alla custodia del creato, come atto di responsabilità.
Torna prezioso, allora, il pensiero di quel grande scrittore aggrappato al suo altopiano di Asiago che è Mario Rigoni Stern, il quale parlava del bosco con senso di mistero e sacralità: “Quando andiamo per i boschi stiamo in silenzio ad ascoltare la voce degli alberi. Siamo rispettosi nel nostro andare, perché è come essere in un grande tempio”. Vaia ha distrutto la foresta, compresa quella dell'Altopiano, ma i veri profanatori del tempio, in realtà, non piombano dalla stratosfera, ma abitano le città. “Qualsiasi stupido è capace di distruggere gli alberi”, osservava amaramente, già nel secolo scorso, il naturalista americano John Muir.
E torna utile, anche la più recente riflessione di un altro montanaro, alpinista e poeta, metà friulano e metà cimbro, che ha fatto dell’Altopiano del Cansiglio e della sua foresta la dimora prediletta, Toio De Savorgnani, che parlando di Vaia osserva come bisognerebbe tornare a guardare alla montagna, come al resto della natura, come a un essere vivente, sacro, un po’ come Dersu Uzala, il piccolo cacciatore siberiano immortalato dal film di Akira Kurosawa, che chiamava la foresta “Uomo bosco”. “Un lama buddista insegna che per poter scalare una montagna in Himalaya si deve chiedere prima protezione e permesso alla montagna, con la preghiera ele offerte”, dice De Savorgnani: “Per un occidentale, laico e razionale, è assurdo. E si liquida la richiesta come superstizione”. Ma dietro a questo gesto sta l’idea del rispetto che devo quando entro in uno spazio che non è il mio, come potrebbe essere un bosco o un monte. “Ciò viene da una visione religiosa del mondo e della vita, da tempo passata di moda. In altri termini, abbiamo perso le regole d’accesso, invalse da millenni”, quelle che oggi, forse, potrebbero ancora insegnarci molto anche rispetto alla nostra sopravvivenza sulla terra. Quindi l'ambientalista lancia la sua provocazione: “Solo la superstizione ci salverà”, volendo dirci che entrare in punta di piedi dentro i templi della natura potrebbe evitare di fare ulteriori danni, magari irreparabili all’unico pianeta che ci offre la vita. Senza dover sperare, poi, sempre nel miracolo.