Quanto avviene oggi in Libia, con le milizie “laiche” e quelle islamiste impegnate a spartirsi con le armi il Paese, si preparava da molti mesi. Il Parlamento era stato già attaccato in aprile, i primi ministri minacciati o rapiti e rapidamente sostituiti, le strutture decisive per lo sfruttamento dell’unica ricchezza nazionale (il petrolio) sottratte al controllo del Governo e spartite tra le varie fazioni.

Non possiamo stupirci. Meglio, ora, badare alle conseguenze. Tra queste, la prima è che l’Italia è il Paese europeo più esposto e meno difeso rispetto alla crisi della Libia. Importiamo da Tripoli il 20% del petrolio e il 10% del gas che consumiamo e con l’aria che tira nei rapporti tra la Russia (produttore) e l'Ucraina (territorio di transito dei gasdotti) non è una bella notizia.

Come sappiamo, inoltre, la Libia è la base di lancio dei barconi che proiettano decine di migliaia di disperati verso le nostre coste. Più il potere centrale a Tripoli è debole (e ora è quasi inesistente), più i mercanti di uomini possono agire. Tenendo anche presente che una Libia nel caos ma piena di armi (si dice che dagli arsenali di Gheddafi siano usciti 15 milioni di mitra e fucili) è un potente fattore di destabilizzazione anche per diversi altri Paesi dell'Africa.

Per finire:  se la Cirenaica, ricca di petrolio e controllata dalle milizie islamiste, dovesse diventare in qualche modo autonoma, saremmo per la prima volta quasi “a contatto” con un’entità politica influenzata dalle idee di Al Qaida. Dopo la Siria, un altro bel disastro.