Ci eravamo lasciati l’altra volta con una domanda pratica e abbastanza esigente: come si cura l’invidia? I vizi capitali sono sovente un intreccio tra psiche e spirito e quindi non sempre la cura può essere un lavoro spirituale soltanto. In alcuni casi gravi, è necessario rivolgersi a uno psicologo bravo che aiuti a rispolverare nodi antichi che alimentano certi atteggiamenti. Consideriamo ad esempio il caso di una persona che è stata gravemente marginalizzata a favore di un fratello o una sorella e che è stata perennemente paragonata e trovata – giustamente o ingiustamente – mancante. Certe ferite dell’anima richiedono una cura specifica dell’anima e non un consiglio sapienziale. Pretendere di risolvere tutto “spiritualmente” è come guarire una frattura alla caviglia causata da un incidente d’auto e un polmone perforato da una costola rotta con un’Ave Maria e un segno della croce. Ciò detto, ci sono degli accorgimenti spirituali utili sia per accompagnare la cura psicologica nei casi radicati sia per liberarsi dall’invidia nei casi più semplici di vita ordinaria. Il primo consiglio guarda alle cause “epidermiche” che causano l’invidia: il paragonarsi. E vorrei partire da una domanda che mi posero proprio ieri i miei figli riguardo a due cantanti: «Chi è più bravo, Bocelli o Soprano [un rapper francese, ndr]?». Ho spiegato ai miei bambini che il genere di ognuno è talmente diverso dall’altro che non si possono paragonare. Ognuno, al massimo, va esaminato alla luce del suo genere. Do questo esempio per dire che tante volte paragoniamo ciò che non va paragonato, ma va colto nella sua unicità. E un detto – attribuito a Einstein – è suggestivo al riguardo: «Ognuno è un genio. Ma se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido». Ecco brevemente il primo consiglio: non paragonarti, scopri la tua unicità. Ed è qui che arriva subito il secondo consiglio: la nostra unicità la scopriamo, già da bambino, dagli occhi che ci amano… e capita spesso che proprio questo sguardo d’amore ci sia mancato (o, per essere realisti, non ce ne siamo accorti o non l’abbiamo saputo interpretare). Ma, per un credente, almeno uno sguardo è sempre lì, posato per amore. Tanto che possiamo dire che il cogito credente sia il seguente: «Esisto, dunque sono amato». Il secondo consiglio è appunto coscientizzare questo sguardo d’amore posato su di noi. È una delle mie definizioni di preghiera… ma ve ne parlo la prossima volta.
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