È accogliendo la fragilità che si costruisce la pace. Papa Leone celebra la messa di Natale e, in una Roma battuta dal gelo, pensa alle «tende di Gaza, da settimane esposte alle piogge, al vento e al freddo, e a quelle di tanti altri profughi e rifugiati in ogni continente, o ai ripari di fortuna di migliaia di persone senza dimora, dentro le nostre città». Ricorda la fragilità della «carne delle popolazioni inermi, provate da tante guerre in corso o concluse lasciando macerie e ferite aperte». Come il Bambino nato a Betlemme «fragili sono le menti e le vite dei giovani costretti alle armi, che proprio al fronte avvertono l’insensatezza di ciò che è loro richiesto e la menzogna di cui sono intrisi i roboanti discorsi di chi li manda a morire». Ma è «quando la fragilità altrui ci penetra il cuore, quando il dolore altrui manda in frantumi le nostre certezze granitiche, allora già inizia la pace».

Per questo nonostante le crisi, le tenebre che fanno resistenza alla luce, si può gridare la gioia del Natale. «”Prorompete insieme in canti di gioia” grida il messaggero di pace a chi si trova fra le rovine di una città interamente da ricostruire. Anche se impolverati e feriti, i suoi piedi sono belli – scrive il profeta Isaia – perché, attraverso strade lunghe e dissestate, hanno portato un annuncio lieto, in cui ora tutto rinasce. È un nuovo giorno!». E di questa svolta partecipiamo anche noi. Per questo la pace è già tra di noi. «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi», ripete il Papa con l’evangelista Giovanni. Sono le parole che Gesù ha appena pronunciato ai discepoli ai quali aveva lavato i piedi, «messaggeri di pace che da lì in poi avrebbero dovuto correre attraverso il mondo, senza stancarsi, per rivelare a tutti il “potere di diventare figli di Dio”».

«Il Verbo si fece carne», si legge in Giovanni. E «il “verbo” è una parola che agisce. Questa è una caratteristica della Parola di Dio: non è mai senza effetto. A ben vedere, anche molte delle nostre parole producono effetti, a volte indesiderati. Sì, le parole agiscono. Ma ecco la sorpresa che la liturgia del Natale ci pone di fronte: il Verbo di Dio appare e non sa parlare, viene a noi come neonato che soltanto piange e vagisce», spiega Leone. Un giorno imparerà la lingua del suo popolo, ma «ora a parlare è solo la sua semplice, fragile presenza. “Carne” è la radicale nudità cui a Betlemme e sul Calvario manca anche la parola; come parola non hanno tanti fratelli e sorelle spogliati della loro dignità e ridotti al silenzio. La carne umana chiede cura, invoca accoglienza e riconoscimento, cerca mani capaci di tenerezza e menti disposte all’attenzione, desidera parole buone».

Certo, Gesù non venne accolto dai suoi, ma «a quanti lo hanno accolto ha dato il potere di diventare figli di Dio». Questo è il modo paradossale «in cui la pace è già fra noi: il dono di Dio è coinvolgente, cerca accoglienza e attiva la dedizione. Ci sorprende perché si espone al rifiuto, ci incanta perché ci strappa all’indifferenza. È un vero potere quello di diventare figli di Dio: un potere che rimane sepolto finché stiamo distaccati dal pianto dei bambini e dalla fragilità degli anziani, dal silenzio impotente delle vittime e dalla rassegnata malinconia di chi fa il male che non vuole».

Richiama le parole di papa Francesco per dire che «a volte sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Ma Gesù vuole che tocchiamo la miseria umana, che tocchiamo la carne sofferente degli altri. Aspetta che rinunciamo a cercare quei ripari personali o comunitari che ci permettono di mantenerci a distanza dal nodo del dramma umano, affinché accettiamo veramente di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e conosciamo la forza della tenerezza».

Solo così possiamo costruire pace perché questa «nasce da un vagito accolto, da un pianto ascoltato: nasce fra rovine che invocano nuove solidarietà, nasce da sogni e visioni che, come profezie, invertono il corso della storia». È questo il mistero che «ci interpella dai presepi che abbiamo costruito, ci apre gli occhi su un mondo in cui la Parola risuona ancora» chiamandoci a conversione.

Il Natale, in questa ottica, rimotiva una Chiesa in uscita, «missionaria, sospingendola sui sentieri che la Parola di Dio le ha tracciato. Non serviamo una parola prepotente – ne risuonano già dappertutto – ma una presenza che suscita il bene, ne conosce l’efficacia, non se ne arroga il monopolio».

La strada della missione, allora, è «una strada verso l’altro. In Dio ogni parola è parola rivolta, è un invito alla conversazione, parola mai uguale a sé stessa. È il rinnovamento che il Concilio Vaticano II ha promosso e che vedremo fiorire solo camminando insieme all’intera umanità, mai separandocene. Mondano è il contrario: avere per centro sé stessi». E la pace ci sarà «quando i nostri monologhi si interromperanno e, fecondati dall’ascolto, cadremo in ginocchio davanti alla nuda carne altrui. La Vergine Maria è proprio in questo la Madre della Chiesa, la Stella dell’evangelizzazione, la Regina della pace. In lei comprendiamo che nulla nasce dall’esibizione della forza e tutto rinasce dalla silenziosa potenza della vita accolta».